Capace o incapace di intendere e di volere? Al momento tutto il processo ad Alessia Pifferi, per l’omicidio di sua figlia Diana, 18 mesi, ruota intorno a questo.
Diana, morta a fin di bene
La neonata, come sappiamo, restò da sola, abbandonata, in casa, per una settimana, dal 14 al 20 luglio 2022. Morì di sete. “Non pensavo che Diana potesse morire”, è l’incredibile frase che ha detto la madre. La Pifferi era abituata a lasciarla da sola nei fine settimana, quando si incontrava con altri uomini, a pagamento e non. Le sue scarse condizioni economiche l’avevano portata a questo; e nel contempo cercava una relazione, un compagno e un padre per Diana. Messa così, sembra una ricerca d’amore. Ma.
Ma già lasciare da sola una neonata per 48 ore è una follia, figuriamoci lasciarla per una settimana. Morte certa. Siccome nessuno può ragionevolmente pensare che una bambina di 18 mesi possa sopravvivere con due biberon di latte e quattro bottigliette d’acqua, i casi sembrano essere due: o un problema psichiatrico o una totale, profonda assenza di empatia, di consonanza emotiva con la figlia.
Ha dichiarato: «Ci contavo sulla possibilità di avere un futuro con lui e, infatti, era proprio quello che in quei giorni stavo cercando di capire». Sono parole che suonano male: è come dire che Diana è stata lasciata sola, sì, ma a fin di bene. È morta, ma a fin di bene. No, non si può sentire. Lasciamo perdere la ricerca d’amore, quella è un’altra cosa. Non si può parlare d’amore quando si lascia da sola una neonata fino ad ucciderla. Semmai è una ricerca di qualcosa per sé stessi, ma non in nome di Diana. Diana, qui, appare per quello che è: un impiccio, un fastidio, un intralcio, ma guarda tu cosa mi va a capitare. E’ così che Alessia Pifferi è entrata nella ristretta famiglia delle madri assassine.
Perizia psichiatrica?
Nella casa di via Parea il frigo era vuoto. La bambina si era tolta il pannolino per disperazione e aveva cominciato a mangiarlo. I capelli un po’ bagnati rendono l’idea di quanto abbia sofferto il caldo, in quella casa chiusa per una settimana, a luglio.
L’avvocato della Pifferi, Alessia Pontenani, dice che le hanno fatto il test del QI in carcere e ne è venuto fuori un bassissimo 40. Ha parlato quindi di ritardo mentale e ha chiesto una perizia psichiatrica, sulla quale ora dovrà pronunciarsi la Corte d’Assise di Milano. Che vuol dire 40? Si tratta di un ritardo mentale al confine tra moderato e grave. Ritardo che è in parte causato dalla genetica, ma molto più è il risultato dell’interazione tra ambiente familiare e sociale, delle eventuali carenze socioculturali e di altri fattori, come la carenza di stimoli e di motivazioni.
Premesso anche che non basta un test per parlare di infermità mentale, ma che occorre una perizia lunga e approfondita, non si può non notare il contrasto tra questa asserita infermità e l’atteggiamento della donna durante l’interrogatorio della sera del 20 luglio. Lucida, razionale, appare chiaramente in possesso delle proprie facoltà. Tuttavia, non è nemmeno da questo che si vede la follia, se fosse.
Anche Ferdinando Carretta, che uccise tutta la famiglia a Parma tanti anni fa, quando confessò in diretta a “Chi l’ha visto?” non aveva l’aria di un pazzo, allineava verbi e descrizioni, spiegava, come fareste voi e io. Quindi i commenti tipo: “ma nel video è lucida”, non dicono nulla. Ovviamente sto paragonando alla buona due casi diversi tra loro, molto diversi, giusto per dire che apparire lucidi non significa essere necessariamente sani di mente.
E aggiungo che sì, la Pifferi potrebbe essere del tutto sana di mente, per la legge. Oltre la capacità di intendere e di volere c’è però qualcos’altro, ed è la capacità emotiva, che nel nostro codice penale non c’è: quando questa manca può succedere di tutto, puoi fare qualunque cosa all’altro, perché è come se l’altro fosse un termosifone e non un essere umano.
Alessia Pifferi, 37 anni, imputata di omicidio pluriaggravato, rischia l’ergastolo.
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