Manipolazione e strumentalizzazione delle impronte digitali da parte degli inquirenti: i casi più frequenti
L’impronta digitale, o dermatoglifo, è uno schema alterato di creste e solchi che si rilevano sulle superfici delle dita, più precisamente nell’ultima falange.
Nel campo delle scienze forensi esse sono rilevate e repertate, da esperti in materia, sugli oggetti prova di un evento criminoso. Per una precisa identificazione è fondamentale ricordare sempre che l’impronta è immutabile nel tempo ed unica per ogni individuo.
La classificazione è molto vasta: ci sono infatti punti di riscontro e minuzie (anse, archi e spirali), quattro varianti d’impronta e altri sette tipi che si basano sulla particolarità della loro forma.
Il rilevamento di un’impronta digitale è un’operazione che può avvenire in due modi: diretto e indiretto. Si parla di modo diretto quando si deve rilevare un’impronta su un individuo in stato di fermo, mentre il modo indiretto prevede alcune procedure, molto particolari, che permettono la loro visibilità nel luogo in cui sono state impresse e successivamente ritrovate. In base al tipo di superficie si utilizza una particolare tecnica; la procedura più utilizzata, su superficie rigida e non assorbente, avviene con sostanze di alluminio o carbone che aderiscono bene alla traccia da repertare.
Nel mondo giuridico, si parla di utilità delle impronte digitali in modo davvero importante dopo la Sentenza pronunciata dal Gip di Milano, nel 2015, e ancora con una più recente Procedura, da parte dell’Europa, per un’infrazione ai danni dell’Italia a causa della mancata assunzione delle impronte digitali degli immigrati, utili per la banca dati Eurodac.
Una modalità d’identificazione ormai fondamentale e conosciuta da tutti, ma è davvero così valida?
Si è sentito molto parlare della poca unicità e utilità in campo forense; secondo l’International Association for Identification “…nessuna base valida esiste per richiedere un numero predeterminato di caratteristiche fra due impressioni d’impronta digitale per stabilire un identità positiva…”. Ad oggi non esiste alcun motivo per ritenere inutili le impronte digitali, o papillari.
In Italia la Cassazione ha stabilito che per avere una corretta identificazione occorre avere un riscontro di 16 punti, dette minuzie; in realtà ne bastano solo 4/5. In America, il prof. I. Dror presso l’Università di Southampton ha sottoposto a sei esperti otto diverse impronte latenti rilevate sul luogo del delitto e sei impronte prese da otto sospettati; il risultato fu che da questi 6 casi su 48, i periti hanno risposto diversamente rispetto a ciò che aveva dichiarato precedentemente sotto giuramento, tranne due esperti. Da questo esperimento, nel 2002, si sono avuti ben 2000 casi di identificazioni errate; U.S. Department of Justice afferma che il margine d’errore è uguale a zero. In Italia mai nessuno ha provato a contestare un accertamento sulle impronte, quanti errori sono stati commessi?
Molte pubblicazioni scientifiche hanno evidenziato una serie di problemi legati alle scienze forensi, in modo particolare alla manipolazione e strumentalizzazione delle impronte digitali da parte degli inquirenti, come è stato affermato da un articolo pubblicato nel New York Post “CSI: Without a clue”, di Katherine Ramsland.
Sul luogo del delitto gli esperti si imbattono in una moltitudine di impronte integre o mezze, le ultime sono inutilizzabili ai fini investigativi, perdono di unicità e compatibilità sottoponendole a confronto con altre più integre.
Svariate prove vengono distrutte o mal repertate, manca un metodo specifico, uno studio adeguato per l’esperto; la qualità con cui vengono raccolte le prove si basa sulla bravura e poco sulla preparazione pratica, mancano degli approfondimenti basilari, la scarsa praticità porta a svariati errori sulla scena dell’evento.
Si sente spesso parlare di “inquinamento delle prove”, l’art 192 c.p.p. esprime la Valutazione della prova, la norma fa riferimento al principio del libero convincimento del giudice. L’inquinamento e manipolazione purtroppo non avviene solo al di fuori del comparto giuridico relativo alla causa in essere, molte sono le sentenze truccate, internamente dagli stessi professionisti; come il caso del giudice Petrini, accusato di inquinamento delle prove relative all’operazione Genesi, realizzata dalla Procura campana su un presunto sistema di corruzione negli atti giudiziari.