«Senza Big Data sei cieco e sordo nel mezzo di un’autostrada». Così ha scritto Geoffrey Moore, teorico del marketing della Silicon Valley, e come dargli torto? In fondo, dietro ai Big Data c’è una grande quantità di informazioni sulle preferenze, le abitudini, i comportamenti, le esigenze e le ricerche di miliardi di persone. Una montagna di dati forniti dalla navigazione in internet (immagini, dati di traffico, di ubicazione, acquisti on-line) che ci rappresentano digitalmente. In sintesi: i Big Data siamo noi. Tutt’al più la mole di informazioni è destinata ad aumentare. Secondo Cisco entro il 2020 il traffico globale di dati dovrebbe approssimarsi attorno ai 40 zettabyte, pari a 40 triliardi di byte.
Nonostante il quadro generale si profili allettante per chi intende sfruttare i Big Data per incrementare e migliorare il proprio business, la situazione in Italia appare alquanto diversa. Fatta eccezione per le grandi imprese che si stanno muovendo nella giusta direzione, con una spesa crescente nei Big Data e negli Analytics, per le piccole e medie realtà emerge ancora un ritardo in tal senso, oltre a una limitata conoscenza delle opportunità che l’informazione digitale potrebbe apportare al proprio business. Questo la dice lunga, considerato che il modello economico italiano (il così detto Made in Italy) si fonda proprio sulle Pmi. A confermare la situazione stagnante i dati dell’anno precedente: l’87% della spesa complessiva nel mercato dei Big Data è appannaggio delle grandi imprese, mentre le Pmi si fermano al 13%. Secondo un’indagine di Unioncamere, solo un’impresa su tre è attiva sul web, mentre per quattro imprenditori su dieci “Internet non serve”. Una sfida resa ancor più difficile dalla distanza culturale che separa troppe Pmi dalla Rete: c’è un malinteso di fondo e cioè che i Big Data non siano a misura delle piccole-medie imprese.
A smentire questo malinteso, ecco un esempio (ma ce ne sarebbero altri) che arriva dagli Stati Uniti. Brian Janezic possiede due autolavaggi in Arizona e per aumentare i profitti ha pensato di installare due sensori IoT nei dispensatori dei prodotti chimici per il lavaggio interno ed esterno dell’automobile. In questo modo, ha capito quanto detersivo sprecavano ogni volta i clienti. Brian ha così deciso di automatizzare il rilascio del detersivo in base alle statistiche medie in arrivo dai sensori. Così facendo ha ridotto i costi e ha reso più efficiente la sua azienda.
L’esempio dimostra che anche una Pmi può ottenere dei risultati concreti (che questi siano ridurre i costi di produzione od ottimizzare un’offerta) attraverso l’uso dei Big Data. Anche perché, altro errore comune, a creare valore non è tanto la mole di dati a disposizione, ma il processo di analisi degli stessi. È dalla scrematura dei dati che si ricava informazioni utili per la propria impresa. Detto questo, il primo passo da compiere è quello di darsi un obiettivo. Non c’è una strada standard da seguire ogni PMI deve partire dal proprio obiettivo personale.
Insomma, i dati vanno sfruttati in base alle proprie esigenze. Se l’obiettivo è quello di abbassare i costi, almeno all’inizio, è fondamentale concentrarsi sulle informazioni che aiuteranno a diminuire gli sprechi. Inoltre, per ottenere valore dai Big Data è necessario utilizzare gli strumenti giusti. I software da acquistare devono avere un costo ragionevole per l’azienda, oltre ad essere facili e intuitivi da utilizzare, onde evitare di dover rivolgersi a delle figure professionali specifiche aumentando di conseguenza i costi di gestione.
Fortunatamente a fronte di questi dati poco incoraggianti si contrappongono fenomeni che stanno innovando l’imprenditoria italiana, fra cui le start up e le Pmi innovative. Una delle caratteristiche che accomuna questi nuovi modi di fare impresa è l’attenzione all’informazione. Per gli imprenditori che ne sono protagonisti “information is king” e i Big Data sono le chiavi di questo regno.