La cultura forense distribuita da CSI pervade tutti: semplici spettatori, operatori del settore forense e legale sia a livello istituzionale che privato e, sembrerebbe, anche i criminali.
Il 6 ottobre 2000 andava in onda la prima puntata di CSI ambientata a Las Vegas. La serie racconta le avventure di una squadra della polizia scientifica alle prese con complessi casi di omicidio che vengono risolti (quasi) esclusivamente attraverso le scienze forensi o meglio, l’analisi delle tracce ritrovate e repertate sulla scena del crimine: la crime scene. La serie ha avuto talmente successo che sono state girate 15 stagioni, è stata trasmessa in oltre 200 paesi e sono stati realizzati, fin dai primi anni, spin-off ambientati a Miami e a New York anche questi hanno riscontrato un notevole successo e sono state prodotte oltre dieci stagioni ciascuno.
Prima di CSI la polizia scientifica televisiva era estromessa dai copioni salvo qualche comparsata di colore dello stravagante medico legale di turno o rapidi riferimenti del tipo è “arrivata la perizia balistica”. Gli scienziati in divisa sono stati, da sempre, relegati negli scantinati dei distretti di polizia. Vi ricordate la coppia di stravaganti entomologi impegnati a giocare a scacchi con scarafaggi al posto dei normali pezzi ne “Il silenzio degli innocenti”?
Quell’immagine rappresentava il vecchio stereotipo dello scienziato forense. Anche Gil Grissom è un entomologo ma di tutt’altro profilo scenico. Con lui e la sua squadra, i tecnici di tutte le polizie del mondo hanno avuto la loro rivincita, sono usciti dai laboratori con le tute bianche e le valigie tanto ingombranti quanto affascinanti: impronte digitali, luminol e soprattutto il DNA sono entrati sulla scena e l’hanno presa diventando protagonisti.
In Italia, la prima stagione veniva trasmessa nel 2001. Sono i primi anni dopo l’emanazione delle norme di attuazione dell’art. 111 della Costituzione che prometteva la parità tra accusa e difesa. Sono anche gli anni del “delitto di Cogne” e del processo mediatico (2002) in cui si comincia a parlare di RIS e di BPA (Blodstain Pattern Analysis). Sulla scia delle serie tv e della cronaca nera pompata dai media, migliaia di giovani vengono rapiti dal fascino delle scienze forensi, riempiono le aule dei neonati corsi in Scienze Investigative delle università e ai seminari più disparati di Crime Scene Investigation inseguendo il sogno della Polizia di Stato, del RIS dei Carabinieri e dell’agenzia investigativa privata in stile Magnum PI.
Intanto, lentamente, la cultura forense distribuita da CSI pervade tutti: semplici spettatori, operatori del settore forense e legale sia a livello istituzionale che privato e, sembrerebbe, anche i criminali. La serie mantiene infatti una solida base scientifica sia nelle tecniche di sopralluogo e di repertazione che di analisi ma, per ovvi motivi scenici e di narrazione, esagera su tutto. Le tracce biologiche trovate sulla crime scene sono sempre perfettamente utilizzabili, mai contaminate e le impronte digitali praticamente complete! Ne segue la doppia illusione della facilità di individuazione ed esaltazione della traccia e di immediata ed univoca interpretazione. Insomma, l’estremizzazione del principio di Locard, la sensazione (forte) che ogni assassino abbia necessariamente lasciato tracce univoche sulla vittima e sulla scena e che questa le abbia lasciate sull’assassino. Ma anche, soprattutto, la sensazione che queste tracce siano facilmente individuabili e se non sono state trovate allora, forse, qualcosa non torna. Viene chiamato effetto CSI. Per alcuni è una leggenda, eppure negli USA, sono molti gli studi che attestano come, nonostante il progredire delle procedure di analisi della crime scene e l’avanzamento tecnologico, le tracce rinvenute siano, negli anni, notevolmente diminuite: forse perché i criminali adottano accorgimenti per cancellare le loro tracce? Altri studi hanno evidenziato l’influenza del filone CSI nella scelta dei giurati tanto che domande sulle serie TV che si è soliti guardare sono diventate uno standard nella selezione delle giurie. Chi infatti è solito seguire serie in stile CSI “pretende” prove scientifiche certe e di univoca interpretazione per emettere un verdetto di colpevolezza.
Ma anche in ambito di polizia giudiziaria e consulenziale, dove invece ci si aspetterebbe una conoscenza della criminalistica allo stato dell’arte, succede che la richiesta e le aspettative di un risultato siano influenzate e la risposta “campione non analizzabile” o “negativo” o addirittura un giudizio di mera “compatibilità” lascino, spesso, l’amaro in bocca al PM o all’avvocato.
L’investigatore privato subisce l’effetto CSI amplificato. Solo nel campo delle investigazioni difensive dove trova appagamento per gli studi fatti e soddisfazione negli interlocutori interfacciandosi con specialisti della parte pubblica e di quella privata. In tutti gli altri casi la professione paga a caro prezzo l’aurea di mistero e fascino creata dalla letteratura e dal cinema e il cliente privato pensa di trovare, realmente, la trasposizione della propria idea televisiva di investigatore privato. Lettere anonime stropicciate e tocchicciate da chissà quante persone, casseforti aperte e richiuse troppe volte rappresentano, purtroppo, la regola e mai l’eccezione. Con questa premessa, risulta sempre noioso spiegare al cliente comune che l’impronta non si può più prendere, che potrebbe essere inutilizzabile o che non c’è più perché il reperto è stato conservato male. Non perchè non sia effettivamente così, ma perchè dall’altro lato si ha, talvolta, la sensazione che il cliente pensi si tratti di una scusa ad hoc per mascherare la nostra incapacità. E questa sensazione, dopo i mille corsi seguiti, non tanto per diventare repertatori provetti quanto più per fini di consulenza e per accrescere quella cultura investigativa che l’investigatore privato deve avere e, soprattutto con l’agenda colma di consulenti (quelli sì veri professionisti della crime scene), è sempre estremamente fastidioso.
A cura di Giacomo Morandi