Corte di Cassazione, Sez. Unite, Ordinanza n. 13884 del 6 aprile 2016.
Non è passato neppure un anno da quando la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 27100 del 26 giungno 2015 aveva affermato che “L’intercettazione telematica, tramite agente intrusore (virus informatico) che consenta l’apprensione delle conversazioni tra presenti mediante l’attivazione attraverso il virus informatico, del microfono di un apparecchio telefonico smarphone, non è giuridicamente ammissibile consentendo la captazione di comunicazioni in qualsiasi luogo si rechi il soggetto, portando con sé l’apparecchio: trattasi di metodica che, consentendo l’apprensione delle conversazioni senza limite di luogo, contrasta, prima ancora che con la normativa codicistica, con il precetto costituzionale di cui all’art. 15 Cost., giacché l’unica opzione interpretativa compatibile con il richiamato dettato costituzionale è quella secondo cui l’intercettazione ambientale deve avvenire in luoghi ben circoscritti e individuati ab origine e non in qualunque luogo si trovi il soggetto”.
Questa conclusione, pare non convincere dal momento che non tiene conto della specificità tecnica e giuridica che le intercettazioni ambientali presentano rispetto alle intercettazioni telefoniche.
“Queste ultime infatti, presuppongono l’esistenza di una specifica apparecchiatura o di un particolare sistema da sottoporre a intercettazione, in modo tale che per ciacuna operazione di intercettazione i dati di identificazione dell’apparecchio da sottoporre a verifica e controllo debbano essere precisati nel decreto autorizzativo. Discorso diverso per le intercettazioni ambientali, di cui al comma 2 dell’art. 266 c.p.p., che per loro intrinseca natura non necessitano della individuazione degli apparecchi, ma si riferiscono ad “ambienti” in cui deve intervenire la captazione, con la conseguenza che devono considerarsi legittime, con possibilità di piena utilizzazione dei risultati, anche quando in corso di esecuzione intervenga una variazione dei luoghi in cui deve svolgersi la captazione”. (Amato).
E sono gli stessi giudici ermellini, quest’oggi a tornare sui propri passi e muovere verso un nuovo orientamento espresso nella ordinanza in commento.
«(…) Con riferimento alla tecnica dell’agente intrusore la pretesa di indicare con precisione e anticipatamemte i luoghi interessati dall’attività captativa è incompatibile con questo tipo di intercettazione, che per ragioni tecniche prescinde dal riferimento al luogo, in quanto è collegata al dispositivo elettronico, sia esso smartphone o tablet ovvero computer portatile, sicché l’attività di captazione segue tutti gli spostamenti nello spazio dell’utilizzatore. Ovviamente questo comporta l’oggettiva impossibilità per il giudice di conoscere preventivamente gli spostamenti della persona che ha in uso il dispositivo elettronico sottoposto ad intercettazione e, quindi, di non poter dare indicazioni sui luoghi».
Questo tipo di intercettazione, nonostante le peculiari caratteristiche tecniche, può essere ricompresa nell’ambito di quelle c.d. ambientali: si tratta, infatti, di una captazione occulta e contestuale di colloqui tra due o più persone attuata da un soggetto estraneo mediante uno strumento tecnico di percezione in grado di vanificare le cautele poste a protezione del carattere riservato di tali comunicazioni; in questo caso, il dispositivo elettronico (ad esempio uno smartphone) rappresenta solo il mezzo attraverso cui viene posizionato, da remoto, l’intrusore informatico che funge da microspia e consente l’ascolto delle conversazioni “tra presenti” al soggetto captante, estraneo alla conservazione e che opera in modo clandestino.
Nel ricorso portato dinanzi la Suprema Corte, la difesa dell’indagato, lamentava proprio la violazione, nonchè l’erronea applicazione dell’art. 273 c.p.p., dell’ordinanza con la quale il G.i.p. del Tribunale di Palermo aveva già disposto la misura cautalare a carico dell’indagato, deducendo i gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato a lui ascritto, solo ed esclusivamente sulla base dei risultati delle intercettazioni telefoniche e ambientali, effettuate sul dispositivo elettronico in uso all’indagato tramite l’installazione del virus autoinstallante.
La Cassazione si trova, perciò, nuovamente dinanzi ad un tema assai delicato quanto insidioso: è giuridicamente (o costituzionalmente) ammissibile l’utilizzo dell’intercettazione tramite c.d. agente intrusore per fondare l’emissione di una ordinanza di messa in vinculis di un soggetto indagato, alla luce della attuale disciplina sulle intercettazioni e, più in generale, alla luce delle garanzie costituzionali di salvaguardia del diritto di riservatezza e privacy?
In verità, i giudici ermellini, non possono fare a meno di riconoscere la necessaria collocabilità di tali tecniche di intercettazione nell’ambito della disciplina dell’art. 266, comma 2 c.p.p.
«Al riguardo non può sfuggire di rilevare che nell’intercettazione tra presenti il riferimento al luogo acquista importanza solo quando l’operazione di captazione deve avvenire in abitazioni o luoghi privati. La stessa giurisprudenza di legittimità ha più volte espressamente sostenuto che nelle intercettazioni di comunicazioni tra presenti è richiesta l’indicazione dell’ambiente nel quale deve avvenire l’operazione solo qaundo si tratti di abitazioni o luoghi privati (Sez. VI, n. 3541 del 05/11/1999, Bembi; Sez. I, n. 11506 del 25/02/2009, Molè), per i quali l’art. 266. Comma 2 c.p.p, consente la captazione in ambiente solo se vi è fondato motivo di ritenere che sia in atto un’attività criminosa».
«L’inviolabilità del domicilio e in genere dei luoghi di privata dimora prevista dall’art. 15 Cost., ha imposto al legislatore di innalzare il grado di tutela di questi luoghi, prevedendo appunto l’ulteriore presupposto che vi sia un’attività criminosa in corso. È solo in questo caso che nel decreto acquista effettivo rilievo l’indicazione dei luoghi, dal momento che il giudice deve moti
vare in ordine all’attività criminosa in atto».
Se dunque, nell’intercettazione tra presenti di tipo “tradizionale” il riferimento al luogo rileva limitatamente e in relazione alla motivazione del decreto, in cui il giudice deve indicare le situazioni ambientali oggetto della captazione (e ciò è funzionale alle modalità esecutive dell’intercettazione, che avviene per mezzo della collocazione fisica di microspie), un’ esigenza di questo tipo, è del tutto estranea all’intercettazione per mezzo di c.d. virus informatico, in quanto la caratteristica tecnica di tale modalità di captazione prescinde dal riferimento al luogo, trattandosi di una intercettazione ambientale per sua natura itinerante. In realtà, ciò che rileva nelle intercettazioni di questo genere è che il decreto autorizzato sia adeguatamente motivato per giustificare le ragioni per le quali si ritiene debba utilizzarsi la metodica dell’installazione da remoto, consentendo così una captazione dinamica.
La stessa giurisprudenza di Strasburgo nell’individuare le garanzie minime che la legge nazionale deve apprestare nella materia delle intercettazioni riguardanti la predeterminazione della tipologia delle comunicazioni oggetto di intercettazione, la ricognizione dei reati che giustificano tale mezzo di intrusione nella privacy, l’attribuzione ad un organo indipendente della competenza ad autorizzare le intercettazioni con la previsione del controllo del giudice, la definizione della categorie di persone che possono essere interessate, i limiti di durata delle interecttazioni, la procedura da osservare per l’esame, l’utilizzazione e la conservazione dei risultati ottenuti, la individuaizone dei casi in cui le registrazioni devono essere distrutte (cfr., Corte EDU, 31 maggio 2005, Vetter c. Francia; Corte EDU, 18 maggio 2010, Kennedy c. Regno Unito), non fa nessuna menzione all’indicazione del luogo di captazione.
Guardando, poi, al fondo del problema, “dal punto di vista tecnico-giuridico, l’utilizzo dei virus tojan per fini di intercettazione telematica desta qualche perplessità in ragione della eterogenea moltitudine di informazioni potenzialmente estrapolabili attraverso questo nuovo strumento tecnologico. In particolare, quanto al “contenuto comunicativo”delle informazioni ottenibili attraverso il virus, nulla quaestio circa la copertura giuridica offerta dall’art. 266-bis c.p.p.: si tratta, a tutti gli effetti, di una tipologia di intercettazione telematica che trova la sua disciplina tipica negli artt. 267 e ss. c.p.p. Maggiori problemi crea, invece, il contenuto “non comunicativo” estrapolabile dagli inquirenti attraverso la captazione online. Conparticolare riferimento alcontenuto dei supporti digitali e, più in generale, a tutte quelle attività svolte dall’utente attraverso il proprio dispositivo, senza alcuna intenzione di comunicare con terzi”. (Scalfati).
Probabilmente, questa tipologia di dati dovrebbe essere raccolta e disciplinata attraverso strumenti tipici (?)
Dalle considerazioni sin qui condotte è dato desumere che la valutazione di "invasività" di uno strumento acquisitivo, quale quello di cui si tratta, richiama all’attenzione il necessario bilanciamento della sua collocazione all'interno del ventaglio dei diritti fondamentali e le scelte di natura politica, talvolta anche opinabili ma necessarie per garantire la realizzazione di un sistema che applichi la giustizia in modo “serio” e “ragionevole”, seppure sacrificando il diritto alla riservatezza e l’inviolabilità di altri diritti fondamentali, ma pur sempre garantendo un'adeguata protezione contro le interferenze arbitrarie nella vita privata.
di Sabrina Caporale – www.forensicsgroup.eu
© Riproduzione riservata