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Direful Tales: storie di umanità e disumanità

Nel panorama sempre più affollato dei podcast, uno dei generi che sta catturando l’attenzione di un vasto pubblico è il true crime. Abbiamo avuto l’occasione di parlare con Valentina Poddighe, la creatrice e conduttrice di “Direful Tales”, un podcast che esplora i casi criminali più intriganti e spesso dimenticati e di conoscere il suo percorso, le sfide e le soddisfazioni di gestire un podcast true crime di successo.

Direful Tales: il podcast

Direful Tales è un podcast di true crime creato e condotto da Valentina Poddighe. Esplora casi criminali intriganti e spesso dimenticati, offrendo una prospettiva unica concentrata sulle vittime. Trasmettendo sin dal 2020, il podcast combina intrattenimento e sensibilizzazione, trattando temi complessi come il femminicidio, la violenza di genere e casi che coinvolgono la comunità LGBTQA+. Con quasi cinque milioni di ascolti, Direful Tales è un potente strumento di informazione che invita il pubblico a riflettere sulla natura della violenza.

Dopo alcuni anni di studi in Archeologia e Antropologia, Valentina Poddighe si trasferisce in America, dove si laurea in Editing Narrativo e lavora in post produzione per diverse case cinematografiche e televisive.

Tornata in Italia inizia il suo progetto Direful Tales. Al momento si occupa della scrittura e della narrazione di due podcast true crime e della produzione di contenuti podcast e letterari per terzi.

Con Direful Tales ha saputo fondere intrattenimento e sensibilizzazione, narrando del male in tutte le sue sfaccettature e affrontando temi complessi come il femminicidio e la violenza di genere interessandosi anche a casi che hanno coinvolto la comunità LGBTQA+. Attraverso storie dettagliate e toccanti, riesce a fare luce su realtà spesso ignorate, portando il pubblico a riflettere sulla natura della violenza a tutto tondo.

Valentina Poddighe e Direful Tales sono un esempio di come la passione e la dedizione possano trasformarsi in un mezzo potente per l’informazione e la sensibilizzazione. Il suo podcast, non solo intrattiene il pubblico, ma contribuisce anche a una maggiore consapevolezza dei problemi legati al crimine e alla giustizia. Ogni episodio è una finestra aperta su storie che meritano di essere conosciute. Abbiamo intervistato Valentina Poddighe per scoprire il “dietro le quinte” del suo lavoro.

Come nasce Direful Tales?

Direful Tales trasmette sin dal 2020, ma in realtà nasce molto prima. Nel 2015 stavo passeggiando per le strade di Los Angeles, e sono arrivata al famigerato Cecil Hotel, un luogo che desideravo esplorare ed investigare da moltissimo tempo perché era stato il teatro di un caso molto famoso, per lo meno negli Stati Uniti: quello di Elisa Lam. In quel momento, per gioco, ho fatto una diretta live su una applicazione di nome Periscope in cui raccontavo quel caso e la storia del Cecil Hotel, poi, visto che in modo del tutto inaspettato molte persone avevano manifestato un interesse notevole, ho continuato raccontando i misteri e i crimini della città dove avevo la fortuna di trovarmi.

Visto il successo, mi è venuta l’idea di portare al pubblico qualcosa di diverso dal solito e ci ho provato in diversi modi, fino a trovare la formula giusta con Direful tales il cui nome è ispirato ai “Penny Dreadful/Bloods”, piccole pubblicazioni inglesi, iniziate nel 1830, che raccontavano di crimini e orrori al costo di un penny.

Una volta trovato il titolo per questa idea, la pandemia ha fatto il resto. Nel marzo del 2020 ho pubblicato il primo episodio usando un microfono mezzo rotto attaccato ad una bottiglietta del tè e un pessimo programma di montaggio audio. Credevo che nessuno lo avrebbe ascoltato, restando solo un passatempo per non impazzire in quarantena. Invece eccoci qua, con quasi cinque milioni di ascolti.

Cosa ti ha spinto a creare un podcast di true crime?

La scelta di fare true crime è stata dettata in parte dalla passione per l’argomento ma anche dal mio vissuto, perché sono stata vittima di violenza.

Quando è successo ero molto giovane e per questo non avevo potuto cogliere determinati segnali in quella persona che non era un estraneo. Non ero abbastanza informata, preparata per affrontare quel tipo di situazione e mi sarebbe piaciuto poterlo essere.

Per questo ho voluto creare il podcast: utilizzare la cronaca in modo serio e approfondito per indurre alla riflessione e consentire alle persone di riconoscere i segnali di una violenza in corso. Oppure indicare delle associazioni alle quali rivolgersi, se chi ascolta o un suo familiare o anche una persona che si conosce si trova ad affrontare una situazione di violenza o potenziale tale.

Ho scelto appositamente il formato narrativo, e per due motivi. Il primo è che non sono giornalista, e dunque non riuscirei a dargli quel taglio particolare. Secondariamente, ed è il motivo principale, perché desidero che chi ascolta si immedesimi nella vicenda che viene narrata.

Penso che il male, in qualunque sua forma, vada sviscerato senza edulcorazioni.

Quali sono le sfide principali che affronti nella creazione dei tuoi episodi? Hai trovato più difficoltà a reperire materiale di casi italiani oppure di casi stranieri di casi italiani? Come mai?

Per quanto riguarda i casi italiani non riesco a trovare fonti serie e costruttive, ma solo notizie di cronaca spicciole.

Se il caso è concluso, le sentenze sono pubblicate però ho trovato tanto sensazionalismo e poca sostanza. Soprattutto perché si trovano articoli che dicono tutti le stesse cose generiche: luogo del crimine, cosa si pensa che sia successo, se le indagini sono aperte oppure concluse e via dicendo.

Ciò che non si trova è una ricostruzione cronologica seria dei movimenti di una persona oppure le prove che sono state analizzate. Soprattutto, la cosa più difficile è trovare informazioni sulle vittime, a meno di non reperire un’intervista di qualche familiare stretto che racconti chi era la vittima. Purtroppo, non c’è materiale utile, è come se le vittime nella loro stessa morte non esistessero più.

La seconda difficoltà sta nel rispettare il confine tra il racconto del fatto principale di una storia di cronaca e il fare pornografia del dolore. Si tratta di un limite davvero sottile, perché è molto facile scadervi soprattutto perché è la strada più facile da percorrere.

Per quanto riguarda i casi stranieri, la complessità non è tanto nel reperire il materiale, quanto piuttosto nel realizzare una storia che non sia percepita come un film dell’orrore da chi ascolta, ma come una vicenda realmente accaduta.

Al di là delle difficoltà causate dalla lingua che rende a volte problematica la ricostruzione del caso, il materiale è più facilmente reperibile perché c’è abbondanza di notizie anche sulla vittima, grazie ai dettagli raccontati dai familiari e dalle associazioni che molto spesso nascono proprio a seguito di quello specifico fatto di cronaca.

Quando mi sono trovata ad affrontare casi cinesi o nigeriani, o comunque appartenenti a culture non anglosassoni, per la lingua mi sono affidata a degli amici che hanno fatto da traduttori, ma la problematicità in queste situazioni è rappresentata dalla cultura che, a volte, induce i familiari a tenere un riserbo maggiore sulle loro vicissitudini.

Come scegli i casi da affrontare di volta in volta?

Dipende da quello che mi trasmettono, c’è sempre l’imbarazzo della scelta proprio perché non esiste un caso identico a un altro. Simili si, identici no.

Ci sono moltissimi ascoltatori che mi chiedono di raccontare una storia piuttosto che un’altra e io, pian paino, cerco di accontentarli tutti, se posso. Ma cerco sempre di narrare storie che mi danno una scossa e che, soprattutto, in quel momento storico possono raccontare qualcosa che è strettamente legato ad una situazione che la comunità sta vivendo.

Ad esempio, se si sta parlando di violenza verso la community LGBT, preferisco approfondire questo argomento perché così posso fornire anche i nomi delle associazioni che offrono aiuto alle vittime.

È importante che ciò che racconto lasci a me qualcosa per prima per poter poi trasmettere questo pathos al pubblico.

Ad esempio, quando ho trasmesso il caso di Sylvia Likens ho pianto per tre settimane, oppure quando sono stati trasmessi gli episodi sui sopravvissuti delle Ande, ho auto feedback di persone che dicevano “Oh, sto piangendo come una vite tagliata”.

Tutto ciò è importante perché vuol dire che Direful Tales è riuscito nell’intento di portare l’ascoltatore nel cuore della storia.

Il messaggio di Direful Tales è quello di mettersi nei panni delle vittime non solo perché potrebbe accadere a chiunque ma anche perché forse, la prossima volta che si ascolta una storia di cronaca, o la si vede alla televisione, magari si riesce a provare maggiore empatia.

Hai detto che molti dei tuoi casi, nascono da cronaca giudiziaria. Come scegli gli atti, come li selezioni?

In generale, non essendo avvocato né giornalista, semplicemente leggo tutto e seleziono quelli che possono essere i passaggi più importanti.

Leggo molto la cronaca giornalistica, ma a volte non basta e occorre approfondire di più, e quindi cerco di reperire il più possibile su date, orari e i dettagli sulla scena del crimine, dell’autopsia, oltre alla ciò che è agli atti: movimenti, tabulati telefonici o messaggi, perizie tecniche e psicologiche, dichiarazioni di testimoni.

È una parte noiosa ma fondamentale per ricostruire i fatti correttamente.

C’è un caso in tutta la storia di Direful Tales che ti ha particolarmente colpita per le modalità in cui si sono succeduti i fatti, piuttosto che per le persone che ne sono state, trattandosi di delitti, involontarie protagoniste?

Sono tante le storie che mi sconvolgono perché tutte le volte mi dico “dai più in basso di così l’inferno non può scendere”. Invece scopro un caso nuovo e allora scopro che no, c’era un altro livello che non avevo considerato.

Per rispondere alla tua domanda un caso che mi ha causato incubi per un bel po’ è stato quello del Toybox Killer.

Si tratta di caso americano: un uomo che rapiva insieme alla compagna delle ragazze, anche molto giovani, spesso minorenni, e le rinchiudeva in un container che lui aveva attrezzato per tutti i tipi di tortura sessuale.

Quando queste ragazze si risvegliavano si trovavano sole, nude, legate ed obbligate ad ascoltare una registrazione di più di 45 minuti dove lui descriveva nel dettaglio tutto quello che sarebbe loro successo, anticipando tutto ciò che avrebbero vissuto, e le regole cui sarebbero dovute sottostare.

L’orrore più grande è che lui, tecnicamente, non ha mai ucciso nessuno, eppure le torture che ha perpetrato hanno causato molte vittime collaterali, tra le quali anche un agente donna dell’FBI che, dopo essere entrata nel container ad esaminare la scena del crimine ed aver raccolto prove per due giorni, nonostante non avesse trovato un cadavere, nonostante non ci fosse niente, è andata a casa e si è sparata perché quello che aveva visto l’aveva traumatizzata.

Questo, come la storia di Sylvia Lychens di cui abbiamo parlato prima, oppure quella del Toolbox Killer o anche Desiree Piovanelli, sono casi talmente cruenti che quasi non sembrano reali. Invece lo sono, e il loro studio mi fa rendere conto della profondità degli abissi dell’animo umano e quanto poco ci rendiamo conto di come queste cose siano tutte intorno a noi.

Ti sei occupata anche del caso di Manuela Murgia? Cosa ci puoi dire? Hai avuto la fortuna di incontrare la famiglia e cosa puoi raccontare di questo caso?

Sono stata contattata dalla famiglia di Manuela l’anno scorso e sono andata a Cagliari per incontrarli. Quello che posso dirti è che si tratta di un caso estremamente controverso, di cui non posso parlare apertamente perché c’è un’indagine in corso.

La mia convinzione personale, ma anche quella della famiglia e dei loro legali, è che si tratti di un femminicidio mascherato da suicidio.

È stata data la colpa vittima affermando che ha scelto deliberatamente di buttarsi da un dirupo in un luogo che lei non conosceva, e dove non avrebbe avuto nessuna ragione per andare.

Manuela era una ragazza solare e felice della vita e non avrebbe avuto un motivo al mondo per suicidarsi. Certo è anche vero che chi si vuole uccidere non da tante spiegazioni, lo fa in silenzio. Molto spesso i familiari non se ne fanno una ragione, non comprendono i motivi del gesto quando in realtà, forse, quella persona le ragioni che le aveva.

Ma in questo caso non è andata così. E la famiglia non è stata per nulla presa in considerazione, quando invece avrebbero potuto rivelare particolari preziosi per indirizzare le indagini.

Se li avessero ascoltati, sarebbe emersa un’altra verità, assai più brutta.

Ma ora, grazie alla famiglia, ai legali e al lavoro mio e di altri colleghi il caso di Manuela è tornato sotto le luci dei riflettori di “Chi l’ha visto?”, ed è stata fatta una richiesta di riapertura di indagini, anche se la storia è ormai vecchia di trent’anni.

Questo per dare giustizia ad una famiglia che è in cerca di risposte ed ad una ragazza, morta in un modo atroce, sulla quale è stato raccontato di tutto tranne che la verità.

Ecco perché è giusto che se ne continui a parlare. E io spero che, finalmente, qualcuno abbia la decenza di restituire giustizia a questa ragazza.

Pensi che il True crime in generale e Direful Tales in particolare, possa avere un impatto positivo sulla società?

Può avere un impatto positivo nel momento in cui si dà uno scopo più alto del semplice intrattenimento. Come dicevo prima, si può parlare di qualcosa che è cruento, si possono fornire dei dettagli, anche oscuri, ma questa crudezza va giustificata fornendo la spiegazione del perchè quel dettaglio viene raccontato: o per far comprendere come stava questa persona, oppure la profondità di una mente malata.

Diffondere il macabro può essere positivo nel momento in cui si cerca di educare in merito a determinate situazioni: mostri non si nasce, si diventa. Nei primi dieci anni di età un bambino sviluppa del potenziali dei disturbi di personalità dati dall’ambiente che poi possono trasformare l’individuo in qualcosa di diverso.

Dedicare tanto tempo all’infanzia di un mostro può essere una spiegazione dei suoi agiti in età adulta, ad esempio.

Paradossalmente la diffusione del macabro e del crudo può essere un modo per salvare anche delle vite o per tornare a parlare di situazioni che sono state dimenticate. Ma lo si deve fare col cuore, con umanità e senza usarlo come una macchina sensazionalistica al solo scopo di guadagno.

Traggo spunto dal caso di Sylvia Likens, che è stato forse uno dei più crudeli che Direful Tales ha raccontato. Come il pubblico reagisce ai dettagli macabri? O meglio, come vive i casi più cruenti?

Tanti ascoltatori, scrivono dicendomi che o hanno dovuto interrompere l’ascolto oppure che non sono riusciti a finire la puntata. Scrivono “non ce la faccio, scusami”.

Ma, a volte, è necessario fornire dei dettagli macabri perché occorre capire il grado di disumanità che è stato perpetrato.

Il pubblico deve comprendere che, se viene raccontata una certa storia, come quella di Sylvia Likens, è perché si vuole far capire come per questo gruppo di persone lei non fosse un essere umano, ma un oggetto. Però se non viene riportato nel dettaglio ciò che le è stato fatto non lo si comprende, non si arriva dentro il suo dolore.

È un po’ come scrivere “il fumo fa male” e poi far vedere l’immagine del polmone ammalato.

Un’ultima domanda. Si parla tanto di femminicidio, si parla di donne vittime di violenza in quanto donne, anche se non vengono uccise. Direful Tales si è però occupato anche di casi in cui sono le donne ad essere autrici di reati. Qual è stata la reazione del pubblico?

Quando si parla di casi di femminicidio, mi dispiace dirlo, ci sono sempre uomini che si risentono. Invece quando il podcast ha trattato storie di donne carnefici ci sono stati uomini che hanno ringraziato, e nessuna donna si è lamentata: comprendono che le donne possono essere carnefici esattamente come gli uomini.

Dalle reazioni maschili è scaturita una cosa molto bella: in molti hanno scritto dicendo che, ad esempio hanno partecipato ad un incontro contro la violenza di genere, oppure che hanno cominciato a badare ai commenti poco carini di un amico e hanno capito che non erano d’accordo, manifestando il loro dissenso.

Sembra niente, ma è tanto.

Il pubblico femminile non si lamenta e quando si parla di donne carnefici, ci sono uomini che, in privato, raccontano la loro esperienza di relazione tossica ma che magari non l’hanno denunciata per via di una cultura che vuole l’uomo forte, che dice all’uomo che non può piangere, che non può essere debole e che non è possibile che una donna possa fargli del male a livello fisico ed emotivo. Quindi quella società che porta un uomo a commettere un femminicidio è la stessa che poi dice “non potete essere deboli”.

Il fatto che raccontino le loro esperienze è un grande successo perché vuol dire che alcuni uomini stanno prendendo coscienza della possibilità di essere vittime.

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