Quando parliamo di caporalato, dobbiamo pensare a forme di criminalità che lucrano sui poveri braccianti per ottenere forme di ricchezza e creare business su quei pochi euro che guadagna un giornaliero, sottopagato e sfruttato.
Il caporalato, soprattutto in agricoltura, è una forma di lavoro nero o meglio di sfruttamento lavorativo. Consiste nel reclutamento, da parte di soggetti spesso collegati ad organizzazioni criminali, di lavoratori che vengono condotti sui campi per essere messi a disposizione di un’impresa. Il concetto che si sviluppa con questo tipo di “lavoro” riguarda non l’uomo in quanto soggetto e con diritti e doveri, ma la persona recepita come “oggetto” di chi detiene la sua vita e il suo futuro in cambio di un salario misero e, il più delle volte, non consono al lavoro svolto.
Con il termine ecomafia, invece, si denota quel settore della criminalità organizzata, scelto per la diffusione di merce contraffatta, e riguarda tutti quei crimini contro l’ambiente che vanno dal momento della coltivazione fino all’arrivo sulle nostre tavole. Sulla suddetta filiera agroalimentare, fatta di gestione dell’intermediazione illecita di manodopera e della tratta di esseri umani, anche in collaborazione con le mafie straniere, vi è un business non indifferente, così come fotografato da Legambiente nell’ultimo rapporto ecomafie 2019.
La rete della criminalità si unisce e si inserisce nella filiera agroalimentare fotografando una nuova forma di mafia, quella degli imprenditori che gestiscono in maniera completamente nuova questo business.
Ma come funziona la filiera del caporalato? In maniera molto semplice e con una gerarchia ben definita, quasi come le migliori organizzazioni criminali. I lavoratori “vittime” dei caporali, sono spesso persone con gravi necessità economiche, immigrati irregolari senza permesso di soggiorno e donne che vengono pagate pochissimo, subendo turni estenuanti sotto il caldo (8-12 h giornaliere) senza poter nemmeno bere. Sopportano maltrattamenti e violenze e nei casi di migranti esiste anche la possibilità del sequestro dei documenti, con vere e proprie intimidazioni e minacce dalle persone che gestiscono i braccianti.
Queste pratiche di lavoro, prevedono una mancata applicazione dei contratti da parte del caporale, che ovviamente tende ad eludere la legge e finanziare in questo modo il lavoro sommerso. Negli ultimi anni, proprio in virtù di questa nuova attività, si è diffusa anche una nuova forma di caporalato collettiva, di cui i giornalisti hanno parlato spesso. Questa forma di caporalato utilizza profili apparentemente legali come cooperative e agenzie interinali, per mascherare la cosiddetta ‘intermediazione illecita di manodopera’ che assume con un contratto a chiamata, indicando meno giorni di lavoro rispetto a quelli effettivi.
Il settore agricolo, più di altri, è soggetto ad alcune forme di business in cui la criminalità organizzata o comunque i fenomeni del caporalato agiscono indisturbati. Un fenomeno trasversale che da nord a sud dello stivale interessa tutta la nostra penisola. Non un fatto isolato, certo, ma al sud molto più diffuso che al nord per una serie di motivi che riguardano anche il business delle terre e l’abbandono quasi totale di alcuni appezzamenti che vengono poi “fruiti” da parte di organizzazioni.