L’uso del GPS nelle investigazioni è legittimato dal DM 269/10. Tuttavia, i dati raccolti non valgono come prova in sede di giudizio
Il GPS, ovvero il localizzatore satellitare, è uno strumento molto utilizzato nelle investigazioni. Questo dispositivo infatti semplifica la vita agli investigatori nel momento in cui devono pedinare una persona. Grazie al GPS, è possibile conoscere il luogo in cui il veicolo del soggetto indagato si trova. Il localizzatore viene solitamente istallato nell’autovettura dell’interessato e consente all’investigatore di riconoscere i suoi spostamenti. Partendo dal presupposto che pedinare una persona non costituisce un reato (nemmeno se a farlo è un soggetto qualunque), anche l’uso del localizzatore è da considerarsi legittimo.
In questo senso, l’uso del GPS nelle investigazioni viene legittimato dal DM n.269 del 1° dicembre 2010. All’art. 5, comma 2, è infatti espressamente previsto che “per lo svolgimento delle attività di cui ai punti da a.I) (attività di indagine in ambito privato); a.II) (attività di indagine in ambito aziendale); a.III) (attività d’indagine in ambito commerciale); a.IV) (attività di indagine in ambito assicurativo);i soggetti autorizzati possono, tra l’altro, svolgere, anche a mezzo di propri collaboratori segnalati ai sensi dell’art. 259 del Regolamento d’esecuzione TULPS, attività di osservazione statica e dinamica (c.d. pedinamento) anche a mezzo di strumenti elettronici”.
L’utilizzo del GPS nelle investigazioni è finito però nel mirino della Cassazione in ambito di una possibile violazione della privacy. Tuttavia, la Corte Suprema ha rigettato ogni qualsivoglia ricorso. I giudici hanno legittimato l’uso del localizzatore in quanto questo strumento non interferisce con il diritto alla riservatezza nelle comunicazioni, né tantomeno implica violazione del domicilio altrui. A differenza invece della microspia per le intercettazioni, la quale richiede l’autorizzazione del giudice prima di essere impiegata.
Se da un lato il GPS non viola la privacy, dall’altro tuttavia i dati pervenuti durante il “pedinamento elettronico” non valgono come prova in sede di giudizio. Conoscere la posizione dell’auto dell’indagato non significa necessariamente conoscere la posizione della persona fisica proprietaria del veicolo. Le informazioni fornite dal localizzatore quindi dovranno essere integrate con altre prove, quali foto e video, raccolte personalmente dall’investigatore durante il pedinamento.