L’odio scorre sul web. Hate speech, un fenomeno sempre più in costante crescita e la mancanza di un’educazione digitale
Il web è spesso descritto come un luogo senza regole dove ogni utente può scrivere ciò che vuole. In realtà, gli stessi principi di civile convivenza, come le norme che tutelano dalla diffamazione e dalla violazione della dignità, valgono nella vita reale come sui social network.
Non esiste più la disconnessione tra vita “on-line” e quella “off-line“, ciò che si scrive e le immagini che si pubblicano hanno quasi sempre un riflesso diretto sulla vita di tutti i giorni e nei rapporti con amici, familiari e colleghi di lavoro.
Un fattore da non sottovalutare è la mancanza di una corretta educazione digitale già dalle scuole secondarie e quindi il crescente uso ingannevole dei social. I ragazzi, infatti, vivendo in simbiosi con il loro smartphone, il più delle volte riprendono le notizie dal web o social network con l’acquisizione di una nuova, non sempre verificata.
La senatrice Liliana Segre, l’ex presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, l’ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina sono solo alcune personalità istituzionali vittime dell’hate speech. Ultima, in ordine di cronaca, la vicenda che ha coinvolto Alice Campello, moglie del giocatore juventino e della nazionale spagnola Alvaro Morata, presa di mira sui social da alcuni tifosi italiani. Perché avere un’idea diversa significa per forza dover essere derisi? E perché il più delle volte si tocca la sfera intima e privata?
È difficile contrastare questo fenomeno, che in un certo qual modo può rappresentare un limite alla libertà di manifestazione del pensiero, in quanto il non essere d’accordo con l’altro presuppone il “dover” umiliare, deridere e denigrare.
Nel maggio 2016 è stata istituita la Commissione sull’Intolleranza, la Xenofobia, il Razzismo e i Fenomeni di odio, intitolata due mesi dopo a Jo Cox, deputata presso la Camera dei Comuni del Regno Unito uccisa il 16 giugno 2016. Presieduta da Laura Boldrini, composta altresì da un deputato per ciascun gruppo politico, da rappresentanti del Consiglio d’Europa, delle Nazioni Unite, dell’ISTAT è stata coadiuvata nel lavoro da centri di ricerca e associazioni impegnate attivamente nello studio e sensibilizzazione sul linguaggio d’odio.
La relazione stilata dal gruppo di lavoro, documenta l’esistenza di una piramide dell’odio alla cui base si collocano stereotipi, rappresentazioni false o fuorvianti, insulti, linguaggio ostile regolamentato o banalizzato e a livelli superiori discriminazioni e quindi linguaggio e crimini di odio.
Tra le indicazioni riportate, è possibile sanzionare penalmente le campagne d’odio contro persone o gruppi. Vi è anche l’obbligo, da parte delle piattaforme dei social network, dell’istituzione di uffici dotati di risorse umane adeguate al fine della corretta ricezione di segnalazioni e conseguente rimozione del contenuto. Un’altra raccomandazione riguarda i media che dovranno essere più sensibili al tema evitando di diffondere notizie infondate, false e diffamatorie.
La relazione finale è stata approvata dalla Commissione nella seduta del 6 luglio 2017, dopo 14 mesi di lavoro nel corso dei quali sono stati auditi 31 soggetti ed acquisiti 187 documenti (studi, ricerche, pubblicazioni monografiche, raccolte di dati, position papers).
I discorsi d’odio non hanno colore politico e denigrano la diversità colpendo la democrazia e il rispetto delle libertà costituzionali. L’odio online può esprimersi in modi differenti ed è un fenomeno difficile da controllare che interessa anche il campo dei diritti umani sotto diversi aspetti: le forme di discriminazione possono riguardare anche migranti, minoranze religiose così come le donne e i diversamente abili.
“Se si ammettono le parole dell’odio nel contesto pubblico, se si accoglie l’hate speech nella ritualità del quotidiano, si legittimano rapporti imbarbariti. Io l’odio l’ho visto. L’ho sofferto. E so dove può portare.” Liliana Segre