Come facciamo? Con un riconoscimento all’americana? Dalle segnaletiche? Con un identikit? Un software? Comunque sia, diversi problemi sono in agguato.
Una rapina a volto scoperto, dei testimoni. Dovrebbe essere facile avere la faccia del colpevole, ma non è così. Innanzitutto ci sono i testimoni da mettere d’accordo: potrebbero aver avuto ognuno una visione parziale del soggetto, potrebbero aver notato solo dei particolari insignificanti, potrebbero rendere dichiarazioni discordanti tra loro o aver avuto troppo poco tempo per fissare in memoria dei dati certi. Sovrastimiamo tutti la nostra capacità di ricordare bene qualcuno e qualcosa. Col risultato che un buon avvocato può far invalidare quella testimonianza decisiva.
Ma supponiamo che non sia così. Supponiamo che siano tutti d’accordo e si rechino in Comando o in Questura per identificare il soggetto. Anche in questo caso, filerà tutto liscio? Non è detto. Supponiamo venga stabilito un riconoscimento all’americana. Per prima cosa è basilare che gli operatori non influenzino in alcun modo il teste, lasciandogli intendere, ad esempio, che il sospettato ha un’aria da ubriaco o che sia per forza tra quelli esibiti. Poi bisogna vedere se il teste riconosce l’autore di reato ma, magari per paura di una vendetta, dice di non vederlo. Poi bisogna vedere se davvero tutti i sospettati sono simili tra loro, come dovrebbe essere, e non tutti tranne uno (il sospettato). Per la strage di Piazza Fontana, Pietro Valpreda fu incastrato così. Poi diverse ricerche suggeriscono che, invece di confondere il teste con una linea di persone, sarebbe molto meglio fargliele vedere una per volta.
Supponiamo invece che vengano mostrate delle segnaletiche di pregiudicati. Chi ci assicura che il colpevole sia necessariamente tra loro? Questo sistema funziona nelle piccole comunità, ma in una grande città non è detto che siano noti alla Polizia tutti i soggetti inclini a commettere un dato reato.
E ora, l’identikit. All’inizio fatto a mano, ma già dagli anni con la tecnica del photophit, cioè componendo il volto del soggetto tramite una serie di strisce orizzontali: capelli, naso, occhi ecc. Un sistema poco flessibile, dal quale si ottenevano volti che non sempre corrispondevano alle quasi infinite varianti umane. Alla fine, la tecnica di disegnare un volto non è mai davvero tramontata e chi la esegue è l’artista forense. In fondo, un disegnatore è molto più flessibile di un photophit o anche di un software. Il teste viene messo a suo agio, si rilassa e racconta di più. Un esempio di successo è il disegno dell’attentatore alla sede Fbi di Oklahoma City, nel 1995. Due testi l’avevano visto e fu tratto un disegno dalle loro descrizioni. Quando arrestarono Timothy McVeigh, era uguale.
I moderni sistemi usano anche software specifici per fare identikit: il vantaggio è la grande scelta di elementi che possono essere assemblati e la possibilità di modificarli, alterare quelli base in modo da piegarli alle particolarità uniche di quel volto specifico.
In certi casi le telecamere di sorveglianza sembrano essere la risposta: ammesso che funzionino, che siano collegate davvero alla rete cittadina, che abbiano la messa a fuoco funzionante, che non siano guaste e che il soggetto sia ben illuminato… Tanti “se” che non rendono sempre automatico e certo il loro apporto.
Alla fine, bisogna stare attenti a non ritenere affidabile nè un teste, nè una telecamera. C’è il rischio che ci vada di mezzo un innocente.
Foto di Immo Wegmann su Unsplash