Un fenomeno storico che ha radici consolidate nel nostro Paese. Terreno fertile che nel corso degli anni ha permesso una vera e propria infiltrazione ad opera della criminalità organizzata, di cui si scrive sempre troppo poco
Quando parliamo del Caporalato inevitabilmente apriamo un mondo di riflessioni umane, sociologiche e criminologiche: un vero e proprio sistema illecito di organizzazione del lavoro, teso allo sfruttamento della manodopera. In agricoltura identifica una forma diffusa di lavoro nero e consiste nel reclutamento, da parte di soggetti spesso collegati con organizzazioni criminali, di lavoratori che vengono trasportati nei campi o cantieri edili per essere messi a disposizione di un’impresa.
Possiamo parlare di caporalato, inserendo questo fenomeno antropologico e sociale in una vera e propria dimensione criminale?
Il campo di indagine della criminologia comprende i diversi tipi di reazione sociale che il delitto provoca, l’analisi delle conseguenze esercitate da tale comportamento criminoso sulle vittime e l’analisi dei ruoli nella genesi del delitto. Chi studia o semplicemente si occupa di criminalità, può individuarne tre livelli: reale, ufficiale e nascosta.
La criminalità reale: riguarda l’insieme dei reati commessi in un determinato periodo e in un certo luogo;
La criminalità ufficiale: è l’insieme delle condotte criminali registrate dalle forze dell’ordine, dalla magistratura e dal sistema penitenziario;
La criminalità nascosta: è costituita invece dall’insieme dei reati commessi in un certo periodo e contesto, ma non registrati e quindi non conosciuti dalle agenzie di controllo sociale. La criminalità nascosta è determinata attraverso il numero oscuro che, per ogni reato, indica la percentuale di eventi criminali non riportati nelle statistiche ufficiali.
Il fenomeno del caporalato può essere annoverato nella criminalità nascosta, in quanto gli atteggiamenti utilizzati dal caporale e dai suoi adepti possono essere ben poco inseriti nelle statistiche reali, ed il motivo è semplice: il lavoro nero e sommerso infatti, unito ai contratti promossi ed elaborati dalle agenzie interinali, rendono la tracciabilità del fenomeno molto più difficile.
Un concetto che potrebbe essere interessante e su cui vorrei sviluppare un’altra analisi, è proprio quello della disumanizzazione e delle politiche welfare mancanti o comunque non adatte a quello che oggi si è trasformato in un fenomeno con numeri allarmanti. Le moderne schiavitù, che annoverano anche nuove forme di caporalato, non sono un problema per pochi, anzi sono ben diffuse capillarmente in ogni angolo dell’occidente civile.
Se pensiamo al concetto più storico e attuale della disumanizzazione, non ci resta che tornare indietro nel tempo, precisamente nel 1938 con la nascita nel nostro Paese dei primi totalitarismi e di quella che poi sarà una pagina triste e disumana della nostra storia, la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
Senza esagerare, si potrebbe identificare la condizione dei braccianti agricoli simile alla condizione tipica di quei lager. In quel caso era il freddo, il sentirsi diverso, la paura di non farcela, essere definito quasi un animale e un numero secondo la concezione di persona. Un parallelismo che può rendere bene l’idea di ciò che accade oggi in questi campi a partire dal recupero dei braccianti, le condizioni in cui sono costretti a lavorare e le violenze che a volte subiscono le donne.
Quando parliamo della dignità umana, in primo luogo pensiamo al lavoro. Una fonte di guadagno ma anche di realizzazione personale. E quando questo non avviene, o meglio avviene in maniera differente dalle nostre aspirazioni o dalle leggi vigenti, si trasforma in altro. L’instabilità economica unita alla necessità di avere un salario dignitoso per andare avanti spesso muove l’individuo anche a morire per il dovere. Il più delle volte gli stessi lavoratori sono utilizzati come individui da spostare e da gestire, senza dignità né possibilità di ribellione.