Pietro De Negri, detto er Canaro, nel 1988 ha ucciso brutalmente l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci. Una storia che colpisce per l’efferatezza, così terribile da aver ispirato il film Dogman di Matteo Garrone.
Alcuni delitti sono destinati a rimanere impressi, a distanza di decenni, nella memoria collettiva, tramandati di generazione in generazione, spesso deformati da dettagli ingigantiti, omessi o distorti, se non deformati, dalla cronaca popolare e a volte da quella mediatica.
Fatti diversi da come sono accaduti, eppure destinati a restare.
Il delitto commesso nella grigia periferia romana da er Canaro della Magliana, nel febbraio 1988, è senza dubbio uno di questi, anche se poi quasi nessuno conosce i veri nomi dei due protagonisti di questa storia tragica, grondante sangue e odio, ma anche cocaina e degrado, che in qualche modo, pur senza collegamenti, lambisce il crepuscolo della storia criminale della banda della Magliana, e nemmeno le precise circostanze in cui il delitto è maturato e si è consumato.
Pietro e Giancarlo, due balordi di borgata come tanti
In quel febbraio del 1988 l’Italia si prepara a seguire il festival di Sanremo, in campionato il Napoli di Maradona domina la serie A e sembra avviato al secondo titolo consecutivo, mentre da Berlino Est echeggia il primo scricchiolare del muro che separa due mondi.
Nella periferia della Magliana, una periferia degradata come altre di Roma, con palazzoni sorti come funghi negli anni Sessanta e nient’altro, come in tante borgate romane, due piccoli balordi si barcamenano tra espedienti e piccoli reati.
Giancarlo Ricci, 26 anni, è un pugile amatoriale, grande e grosso, è uno che sa menare. Pietro De Negri ha qualche anno più di lui, ne ha 32, ha una moglie che lo ha buttato fuori di casa e una figlia per cui stravede.
Ama gli animali, i cani soprattutto, per questo ha aperto una piccola toilettatura per quadrupedi, guadagnandosi così quell’appellativo, er Canaro. È un poveraccio sempre al verde che si arrabatta, che si arrangia come tanti, che commette piccoli reati, come tanti, e che commetterà un omicidio banale come tanti altri.
Tranne per il dopo.
L’omicidio del pugile Ricci
La mattina del 18 febbraio le forze dell’ordine rinvengono in una piccola discarica al limitare del quartiere della Magliana il corpo semi carbonizzato del 26enne Giancarlo Ricci: il cadavere presenta orribili mutilazioni.
Si pensa ad un regolamento di conti, peraltro frequente in quegli anni nelle periferie romane, ma le indagini della Mobile portano subito alla pista del Canaro, un amico e sodale del pugile.
Che avrebbe maturato un’ossessione fobica nei confronti del pugile, che lo avrebbe fregato e vessato, pestandolo e derubandolo, ma anche qui le versioni divergono e la vittima non potrà mai fornire la sua versione dei fatti contestati e forse distorti.
Er Canaro sosterrà di essere stato incastrato da Ricci nel furto dell’esercizio commerciale adiacente al suo, di essersi fatto mesi di galera solo lui per questo, di non aver ricevuto la sua parte di refurtiva, di aver subito il furto di uno stereo dal pugile, che addirittura gli avrebbe massacrato il cane.
Di sicuro alla base del delitto c’è anche la cocaina consumata da De Negri a fiumi, prima, durante e dopo l’omicidio avvenuto nel negozio di toilettatura.
L’inganno e la gabbia
Nella sua ricostruzione dopo l’arresto dopo essere crollato sotto la pressione degli inquirenti, De Negri racconterà di aver ideato un piano diabolico, astuto quanto semplice, di aver attirato il picchiatore Ricci in una trappola in cui si sarebbe infilato da solo, proponendogli di nascondersi in una gabbia per cani per sorprendere una spacciatore e derubarlo del contante e degli stupefacenti.
Una volta ingabbiato il malcapitato Ricci il suo aguzzino, caricato a molla dalla cocaina, lo avrebbe massacrato con una spranga, fracassandogli la testa, prima di scagliarsi sul suo corpo senza vita infierendo, amputandogli dita, lingua, organi genitali.
La confessione di Er Canaro
Nella sua confessione Pietro De Negri si vanterà di aver torturato per ore Ricci, infierendo con mutilazioni orrende cauterizzate con alcool e fuoco, per evitare il dissanguamento e mantenerlo in vita il più a lungo possibile, arrivando a evirarlo, ad accecarlo, a mozzargli la lingua per non ascoltare insulti e lamenti, prima di aprirgli il cranio per lavarlo con lo shampoo dei cani.
“So stato io… gli ho sciacquato il cervello con lo shampoo dei cani, a quell’infame. Gli ho amputato le dita, poi gli ho tagliato le orecchie, il naso, i genitali. Gli ho detto: adesso non sei più neanche un uomo. Lui è svenuto, io ho bruciato le ferite con la benzina per fermare il sangue e l’ho fatto rinvenire. Parlava troppo, continuava a insultarmi così gli ho tagliato la lingua. Ma non voleva saperne di morire, quell’infame. Alla fine gli ho sfondato la testa e lavato il cervello.”
Sarebbero queste le parole de Er Canaro, raccontando una tortura infinita, inflitta con metodo per troppe ore.
Esagerazioni si intuisce fin da subito, partorite dalla fantasia deformata dell’assassino, un uomo esasperato, sicuramente, e alterato dalla droga oltre che da piccoli disturbi mentali.
L’autopsia decreterà che le mutilazioni sono state inferte post mortem, dopo che Ricci era stato ammazzato a colpi di spranga.
Un omicidio come tanti, tranne appunto per il dopo.
I macabri dettagli delle torture, amplificati dalla vox populi e da una parte della stampa, alimentano però la leggenda di questo cruento delitto e della figura sanguinaria e crudele de Er Canaro, un po’ mostro, un po’ sadico torturatore, soprattutto un po’ giustiziere, il piccolo uomo vessato che si ribella e si vendica del suo persecutore.
Le incongruenze e l’ombra di un complice
La versione di De Negri presenta ampie zone d’ombra: la gabbia per cani difficilmente avrebbe potuto contenere un uomo dalla corporatura imponente come Ricci, peraltro vestito con pesanti abiti invernali. Non si capisce poi come Er Canaro avrebbe trascinato da solo il corpo della vittima fino alla discarica, dove lo avrebbe incendiato. E difficilmente sarebbe riuscito a sopraffarlo da solo, seppur armato di un corpo contundente.
Le lunghe e accurate indagini hanno però escluso la presenza di complici. La madre della vittima per decenni ha continuato invano a chiedere di indagare sui nomi di chi aveva aiutato De Negri in quella mattanza.
La condanna, la reclusione e l’oblio
De Negri, dopo una prima scarcerazione per accertata incapacità di intendere e di volere, verrà condannato ad una pena di 24 anni: ne sconterà 15, da detenuto modello impegnato in attività di volontariato, prima di tornare libero, sparire dai radar e cominciare una nuova vita nell’ombra, rifiutando ogni intervista, ogni proposta di mettere nero su bianco una propria biografia, dicendo no anche alle numerose offerte di raccontare la sua storia per versioni televisive o cinematografiche.
Sceglierà il silenzio, chiedendo l’oblio, di essere dimenticato da tutti.
La sua figura, ingigantita e mitizzata, è stata però citata da cantanti rap, esaltata con scritte sui muri, e la sua storia, la sua e quella del pugile Giancarlo Ricci, ha ispirato film e libri, attinenti alla realtà e non all’inverosimile ricostruzione fornita dallo stesso Er Canaro agli inquirenti.
(Nella immagine in evidenza parte della locandina del film Dogman di Matteo Garrone, ispirato al delitto del Canaro della Magliana)