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Il delitto d’impeto: il raptus omicida esiste?

L’omicidio di Sharon Verzeni ha riportato alla ribalta l’annosa questione del delitto d’impeto e del raptus omicida che ne conseguirebbe. Follia ed efferatezza non sono sinonimi. Raptus omicida non significa sostanzialmente nulla: raramente un malato è malvagio e raramente un malvagio è malato.

Cos’è il delitto d’impeto?

Viene definito “omicidio o delitto d’impeto” l’assassinio commesso d’impulso, senza che il gesto commesso sia preceduto da un’adeguata riflessione.

Solitamente, tale delitto è compiuto sulla scia di un forte sentimento, come ad esempio quello d’ira nutrito nei confronti della vittima. Spesso confuso con il delitto passionale, in realtà questa fattispecie delittuosa d’impeto può avere motivazione diverse rispetto alla gelosia, movente del delitto passionale.

Cosa dice la legge?

A ben vedere, la legge non contempla il delitto d’impeto. In altre parole, non esiste un reato così rubricato, rappresentando quest’ultimo solamente una particolare modalità di manifestazione del dolo, vale a dire dell’elemento psicologico con cui il crimine è commesso.

Più che di “omicidio d’impeto”, quindi, sarebbe corretto parlare di “dolo d’impeto”.

Che cos’è il dolo?

Con il termine “dolo” ci si riferisce all’intenzionalità con cui un certo reato è stato commesso: dunque un reato è doloso quando è compiuto volontariamente dal suo autore, il quale agisce proprio con l’intenzione di realizzare la condotta illecita.

Che cos’è il dolo d’impeto?

Il dolo d’impeto rappresenta una speciale forma di dolo, caratterizzata dalla particolare velocità con cui il reo agisce rispetto al momento in cui ha maturato il proprio proposito delittuoso. In questi casi il reo agisce immediatamente, senza pensare troppo alle conseguenze del proprio gesto.

Questo non vuole dire che egli non comprenda che sta commettendo un reato, ma semplicemente che l’intervallo di tempo tra la nascita dal proposito criminoso e la sua attuazione è particolarmente breve.

Si tratta quindi di una forma di dolo che si verifica quando il delitto viene commesso per una volontà improvvisa.

Quando il dolo d’impeto riguarda un assassinio, si è soliti parlare di “omicidio d’impeto”. È il classico caso del raptus omicida.

Delitto d’impeto e premeditazione: differenza

Il delitto d’impeto si contrappone nettamente all’omicidio premeditato: mentre il primo è commesso d’impulso, cioè senza pensarci troppo, la premeditazione è caratterizzata proprio dall’elaborazione di un piano volto a compiere il delitto.

Il dolo d’impeto è solitamente considerato, ai fini della valutazione dell’intensità del dolo, come la forma meno grave, proprio in contrapposizione alla premeditazione. Non a caso, quest’ultima è una di quelle aggravanti che può far scattare l’ergastolo a carico dell’omicida, a differenza del dolo d’impeto.

Le caratteristiche del delitto d’impeto

Come detto, il delitto d’impeto non è punito con l’ergastolo, bensì con la reclusione non inferiore a 21 anni. Anzi è ben possibile che il dichiarato colpevole potrebbe addirittura beneficiare di uno sconto di pena, se viene provato che il fatto è stato commesso in uno stato d’ira causato dal fatto ingiusto altrui (cd attenuante della provocazione) che ben può abbinarsi al dolo d’impeto, con la conseguenza che, nel caso di omicidio, la pena finale potrebbe addirittura essere ridotta a 14 anni di reclusione (21 anni pena base – 1/3 dovuto all’applicazione dell’attenuante).

Se il dolo d’impeto esclude la premeditazione, esso non è però idoneo a escludere altre circostanze aggravanti che, ugualmente, potrebbero comportare la pena dell’ergastolo.

Follia non è malvagità e malvagità non è follia. L’insussistenza del raptus omicida

Quando ci si trova dinnanzi a delitti particolarmente efferati o ai quali non si riesce a dare una spiegazione plausibile tanto da considerarli in apparenza incomprensibili, si associa quel delitto alla follia, alla pazzia, a quello stato mentale o a quel comportamento che sta agli antipodi della “normalità”.

Efferatezza o follia?

Spesso la cronaca nera racconta di omicidi particolarmente violenti commessi “probabilmente” in preda ad un raptus omicida, laddove il termine “probabilmente” viene erroneamente utilizzato per porre in rapporto di proporzionalità diretta efferatezza e follia. Ma cosa realmente si intende per follia? È possibile che una persona passi repentinamente da uno stato di tranquillità o “normalità” ad uno che la porti a commettere un gesto brutale come l’omicidio? Il fatto è che molti delitti orripilanti, per non dire tutti, sono commessi da persone che folli non lo sono affatto.

A questo punto, si rende quindi necessario, da un lato, valutare la presenza di una patologia mentale (dunque che il Giudice accerti con CTU la sua presenza o assenza) con le relative compromissioni cognitive che essa comporta e, dall’altro, la storia di vita ed il vissuto della persona vanno necessariamente approfonditi per giungere alle motivazioni sottese al gesto criminoso.

La mente. La follia. La non follia

Quelli che i media definiscono ‘raptus’ in genere sono gesti compiuti da persone con disturbi di personalità, con stati emotivi complessi che possono avere una componente patologica, ma che non li privano della capacità di valutare e decidere”, così si esprime lo psichiatra Dottor Ugo Fornari e continua dicendo che “la grande patologia mentale – la malattia vera che rende le persone non imputabili – riguarda al massimo l’8-10% dei delitti” e “oggi le persone socialmente pericolose sono in gran parte sane”. Ciò significa che, è vero, si può impazzire, nel senso che possono commettersi azioni violente conseguenti a dei momenti di scompenso psicotico, ma questi rimangono casi rari in quanto la maggior parte dei malati di mente non commette crimini violenti.

Sono molte le differenze tra chi è affetto da infermità e colui che, “sano”, compie atroci crimini. Tale linea di demarcazione, pur essendo talvolta molto sottile tra i due, permette di sfatare il mito secondo cui follia ed efferatezza siano direttamente proporzionali.

Per questo motivo, è bene distinguere il malato mentale, come può essere chi soffre di schizofrenia, disturbo bipolare o depressione, da chi invece ha un disturbo di personalità come ad esempio comportamento antisociale, borderline, narcisista.

La giurisprudenza

Gli artt. 88-89 c.p., in tema di vizio totale e parziale di mente, affermano che “non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere o di volere” (art. 88 c.p.) e che “chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita” (art. 89 c.p.), e demandando al Giudice la decisione di ordinare una perizia psichiatrica che, in certi casi di crimini particolarmente violenti, viene concessa ai fini di una valutazione sia circa la sussistenza di un’infermità sia della misura con la quale abbia inciso sulla capacità di intendere o di volere al momento del compimento dell’atto.

Quando aggressività e malattia non sono sinonimi

Una valutazione peritale concerne non solo la patologia mentale ma anche, come stabilito nella sentenza n. 9163 del 2005 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, i disturbi di personalità, i quali “possono costituire causa idonea a escludere o scemare grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere” a patto che “tra il disturbo mentale e il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”.

La differenza fra crimine commesso da chi è “sano” e chi non lo è

Si tratta di differenze sostanziali:

  • persona affetta da vizio di mente: è posta in primo piano la patologia o il disturbo di personalità, oltre alla considerazione che il disturbo ha inciso ed alterato la percezione del significato del reato e della sua commissione con conseguente perdita di contatto con la realtà;
  • persona “sana”: l’accento si pone sulla crudeltà del fatto, il disturbo di personalità diagnosticato non ha minimamente influito sulla percezione del reato, sulle sue conseguenze e non ha intaccato lo stato di coscienza. In altri termini il soggetto era perfettamente in grado di comprendere il disvalore dell’azione delittuosa che stava ponendo in essere.

Infine, aspetto da non sottovalutare è che tendenzialmente le persone con patologia mentale minimizzano oppure addirittura sono inconsapevoli del proprio stato di infermità; laddove, invece, chi non è affetto da alcuna patologia, potrebbe dichiarare di essersi trovate in uno stato di delirio o di allucinazioni nel momento della commissione dell’efferatezza.

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