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Il reato di molestie nelle investigazioni

Per la particolarità e la delicatezza della sua attività, l’investigatore privato si trova molto spesso ad essere indagato –o addirittura imputato- nel procedimento penale per il reato di molestie, in particolare allorquando esegua dei “pedinamenti”.
La molestia è punita dall’articolo 660 del nostro codice penale, il quale prevede che chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto o l’ammenda.
La molestia, come ogni fattispecie, si compone di 2 elementi essenziali: uno oggettivo e uno soggettivo.
L’elemento oggettivo del reato consiste in qualsiasi condotta oggettivamente idonea a molestare e a disturbare terze persone, interferendo nell’altrui vita privata e nell’altrui vita relazionale.
L’elemento soggettivo è integrato dal dolo, ovvero dalla coscienza e volontà, accompagnata dalla consapevolezza dell’oggettiva idoneità a molestare o disturbare, senza valida ragione, il soggetto che la subisce.
È necessario sottolineare come il biasimevole motivo citato dall’articolo 660 c.p. si deve escludere in radice per quanto attiene all’investigatore privato, dal momento che questi riceve dai propri clienti un incarico in genere conferito per far valere o difendere un diritto in sede giudiziale. In ogni caso l’investigatore, quando effettua un’indagine o un pedinamento, svolge un’attività lavorativa e non può dunque essere considerato mosso da biasimevole motivo, non essendo biasimevole l’esercizio della professione di investigatore, autorizzata dalla legge.
Per quanto riguarda la petulanza, la Corte di Cassazione considera come “petulante ogni atteggiamento di chi insiste nell’inferire nell’altrui sfera di libertà, anche dopo essersi accorto che la sua condotta non è gradita” (Cass. 2478/1984), ma specifica che: “non basta un pedinamento puro e semplice ad integrare gli estremi dell’azione molesta, se non si concreti in una condotta pregnante, indiscreta e petulante” (vedesi ex plurimis Cass. 2483/1978).
Occorre rappresentare che la circolare del Ministero dell’Interno, denominata Vademecum Operativo, riporta a pagina 14 che “In tal senso si registra una oramai consolidata giurisprudenza secondo la quale il pedinamento operato dagli investigatori privati non integra gli estremi dell’azione molesta punita dall’art. 660 codice penale, anche se interferisce nell’altrui sfera di libertà e pure se non è gradito alla persona che lo subisce”.
Per tali ragioni appare evidente come in genere l’elemento oggettivo tipico della molestia venga a mancare nell’attività svolta dagli agenti investigativi.
Per quanto riguarda poi l’elemento soggettivo, è opportuno rilevare che l’attività dell’investigatore privato è proprio quella di pedinare i soggetti indagati facendo ben attenzione a non essere scoperto, dovendo in quest’ultimo caso abbandonare immediatamente il servizio.
Infatti l’investigatore, per raggiungere il suo scopo –ovvero quello di verificare ciò che fa il soggetto sul quale sta investigando quando non sa di essere visto- persegue il fine precipuo di NON essere scoperto. Se lo fosse vanificherebbe tutta l’indagine, in quanto la persona, avvedutasi di essere osservata, si guarderà bene dal porre in essere comportamenti che potrebbero essere usati contro di lei.
Ciò fa quindi venir meno anche l’elemento soggettivo necessario per l’attribuzione del delitto di molestie.
 
A cura dello Studio Legale Gobbi & Partners.

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