Il podcast “Indagini” di Stefano Nazzi ha avuto un tale successo che è diventato uno spettacolo teatrale. E ora il giornalista è anche in libreria con “Canti di Guerra”, libro sulla Milano criminale degli anni Settanta.
“Mi chiamo Stefano Nazzi, faccio il giornalista da tanti anni. Nel corso della mia carriera mi sono occupato di storie che nel tempo vi sono diventate famigliari e altre che potreste non aver mai sentito nominare. Storie di cronaca, di cronaca nera, di cronaca giudiziaria.”
Inizia così il trailer dell’ormai celebre podcast “Indagini” di Stefano Nazzi per Il Post. Ascoltatissimo al punto da diventare anche uno spettacolo teatrale.
Ma Nazzi non dimentica la carta stampata e infatti dopo Kronaka (Laterza) e Il volto del male (Mondadori), ha appena pubblicato Canti di guerra (Mondadori) in cui racconta la Milano violenta degli anni Settanta, dove si incrociano le vite e i destini di tre banditi che segneranno per sempre le sorti della mala milanese: Francis Turatello, Renato Vallanzasca e Angelo Epaminonda.
Se oggi Stefano Nazzi è noto proprio per i suoi coinvolgenti racconti dei casi di cronaca, non tutti sanno che inizialmente come giornalista si è occupato di altro. E allora come è arrivato a diventare il “re” dei podcast true crime? È proprio da questa domanda che parte la nostra intervista.
Oggi noto per i tuoi podcast su casi di cronaca nera, ma per buona parte della tua carriera ti sei occupato per la stampa cartacea di tematiche anche molto lontane dalla cronaca, come il turismo. Come sei approdato ai podcast e al teatro?
Ci sono arrivato in modo abbastanza casuale, nel senso che ho fatto tutta la mia carriera nei giornali cartacei, prevalentemente settimanali e mensili, e mi sono occupato di tanti argomenti: impresa, mondo femminile, turismo. Poi all’inizio degli anni Duemila sono passato a un settimanale molto popolare, Gente, e lì ho cominciato a seguire molte delle storie di cronaca più note, come inviato e poi come responsabile dei servizi.
Il passaggio al podcast è stato direi naturale. Quando ho iniziato a lavorare per Il Post che stava producendo una serie di podcast, ci è venuta l’idea di usare questa mia conoscenza della cronaca per provare a raccontarla attraverso questo nuovo strumento di narrazione.
E non è stato difficile, perché il linguaggio che uso sulla carta, nello scrivere articoli o nei libri, è lo stesso che uso nel podcast.
Lo considero uno mezzo straordinario per raccontare le vicende perché ti aiuta a mettere in ordine i fatti e permette di sottolineare con la musica o con l’intonazione alcune parti.
Visto il riscontro avuto, abbiamo pensato di proporre la stessa cosa con la gente davanti e così è venuto il teatro. In questo caso, se è vero che il linguaggio è sempre lo stesso e anche il tipo di racconto, avere di fronte il pubblico crea un’atmosfera diversa, una connessione immediata che invece con il podcast non hai.
Molte storie di cronaca sono così note e trattate dai media che il pubblico conosce tutto, anche spesso gli aspetti più pruriginosi. Tu hai deciso di raccontare le stesse storie ma in modo diverso, ovvero andando a vedere che cosa è successo dopo. Come ti prepari per farlo?
Parto dalla fine. Quelle che tratto sono tutte storie passate in giudicato ed è interessantissimo per me leggere le motivazioni delle sentenze. È l’unico modo che ho, l’unico strumento a mia disposizione per capire il percorso logico dei giudici, per capire cosa il collegio giudicante ha trovato fondamentale durante i processi, cosa invece ha trovato illogico o meno importante.
Leggendo le motivazioni mi sono reso conto che il racconto giornalistico delle vicende giudiziarie spesso lascia fuori molti aspetti che invece nel processo hanno avuto un’importanza cruciale.
Inizio da lì e ricostruisco poi tutto il caso.
Ci sono stati dei casi dove ti sei sentito più a disagio oppure più coinvolto o che ti hanno colpito in modo particolare?
Tutti i casi che riguardano bambini o minori. E credo sia così per tutti, non solo per me. Più la vittima è indifesa, come nel caso dei bambini, più siamo colpiti a livello emozionale.
A teatro, in Indagini Live, racconti il delitto del Circeo, una storia da brividi, impossibile da dimenticare. C’è stato qualche aspetto che ti ha sorpreso quando sei andato a ricostruire questo caso per poi metterlo in scena?
Mi ha sorpreso quel che è accaduto dopo il massacro, che è poi la parte su cui mi concentro nel racconto. Il delitto del Circeo è terribile per ciò che avvenne e per come avvenne. Ti dà anche l’idea di un certo mondo di allora, di un certo modo di concepire la vita da parte delle persone coinvolte. Ma quello che successe dopo è altrettanto incredibile.
Ci furono fughe assolutamente inconcepibili e facilissime. Uno dei tre assassini, Andrea Ghira, sparì nel nulla e non se ne seppe più niente fino alla sua morte. La scoperta avvenne quasi casualmente. Fu per un’indagine parallela che si venne a sapere che si arruolò nella legione straniera spagnola. In realtà probabilmente non è mai stato cercato come si sarebbe dovuto cercare.
E poi Angelo Izzo, che uscì dopo trent’anni e uccise di nuovo. Ed è uscito perché ha avuto accesso ai benefici di legge come è normale che sia, ma il problema sta nel fatto che chi lo doveva valutare non capì che era ancora pericoloso. Del resto, non era facile decifrare la sua mente. Da buon manipolatore, riuscì a ingannare il giudice di sorveglianza e chi lo doveva valutare a livello psicologico. Da questo punto di vista ritengo ci sia stato un errore del sistema.
Ti è mai capitato di essere contattato da qualcuno collegato alle vicende che hai raccontato in un podcast?
Sì, sono stato contattato dalla PM che si occupò del caso di Novi Ligure. Mi ringraziò perché ero riuscito a raccontare il caso senza tutto quel contorno di morbosità che c’era stato attorno alla storia di Erika De Nardo e Omar Favaro. Mi ha fatto molto piacere.
Un’altra volta sono stato contattato dal padre di Raffaele Sollecito, uno dei due ragazzi coinvolti e poi assolti in via definitiva in Cassazione per il caso di Perugia, ovvero l’omicidio di Meredith Kercher. Mi ha detto di essersi emozionato ascoltando il mio raccontato e fece delle precisazioni sul caso, ovviamente in linea con il suo punto di vista.
E questo è uno dei motivi per cui cerco sempre di non sentire i diretti interessati. Loro ti raccontano la loro versione della storia, che è anche una storia di rabbia e dolore personale. Preferisco attenermi a quello che è stato verbalizzato nelle indagini e ciò che emerge nei processi, per evitare di essere influenzato dalle emozioni di chi è coinvolto.
Spesso nei casi di cronaca l’assassino ci incuriosisce più della vittima. Come te lo spieghi?
Penso sia normale e logico perché siamo attratti da ciò che non capiamo. E certi atti sono davvero difficili da comprendere. Ci sembrano assolutamente lontani da noi. Sono così inconcepibili da farci chiedere chi sono le persone capaci di tanto orrore.
Poi a volte il racconto giornalistico prende derive che vanno a cercare aspetti che non c’entrano nulla con la vicenda e con ciò che è avvenuto.
Infatti, il tuo stile è completamente diverso dal modo di fare informazione oggi, basato spesso sul sensazionalismo e sul racconto degli aspetti più morbosi di un caso.
Sì, la mia è una scelta molto precisa. Non faccio quel tipo di racconto. Ho notato che in televisione il racconto imperante seguiva questa direzione, per tanti motivi primo fra tutti perché c’è un pubblico a cui piace quello stile. E io ho deciso di fare un racconto diverso, di togliere tutto quello che è, secondo me, meno importante, riportando l’essenza delle cose.
Quanto tempo richiede la scrittura di un episodio di Indagini?
Circa un mese. La parte più complicata è la sintesi, anche perché gli atti e le motivazioni sono scritti con il linguaggio giudiziario che è molto preciso e tecnico. E non è che puoi cambiare alcuni termini e usarne altri, perché si rischia di discostarsi dal concetto alla base di una certa espressione.
È appena uscito “Canti di guerra”, il tuo libro sulla Milano degli anni Settanta. La Milano di Vallanzasca, Turatello ed Epaminonda. Perché hai deciso di scrivere di questi tre criminali e di quella Milano nera?
Per due motivi. Il primo è perché di questi tre banditi si è scritto molto, ma non è che si sappia poi così tanto che le loro vite erano indissolubilmente unite. La loro è una storia che corre parallela. Si combattevano, ma erano anche amici, al punto che Turatello fu addirittura testimone di nozze di Vallanzasca ed Epaminonda lavorava per Turatello. Quindi tre vite fra loro legate che sono andate anche al di là di Milano per toccare tutta Italia.
Il secondo elemento che mi ha spinto a scriverne sono tutte le discussioni che oggi si fanno attorno alla sicurezza. O meglio, alla percezione di insicurezza. Se andiamo a vedere anche solo trent’anni fa, nel 1990 per esempio c’era una media di 1700-1800 omicidi all’anno in Italia. Adesso sono un po’ più di 300. Che sono comunque molti, ma decisamente meno se pensiamo al passato.
La criminalità è cambiata e anche la capacità delle forze dell’ordine e della magistratura di intervenire lo è. Ci tenevo a dire che è meglio adesso a livello di sicurezza che prima.
Milano, in particolare, allora era completamente diversa da quella che conosciamo oggi. Alla sera c’era una sorta di coprifuoco, un orario dopo cui la criminalità si muoveva e agiva liberamente.
Volevo raccontarlo e volevo anche far capire quanto differente fosse anche l’approccio alla vita e alla città.
Sono tre criminali che per certi versi affascinano. Non credi?
Si, sono dei banditi anche affascinanti a loro modo, soprattutto Vallanzasca. Quando li racconti emergono degli aspetti che spingono a provare talvolta una certa simpatia. Vallanzasca, per esempio, non ha mai voluto trafficare in droga, era diverso dagli altri, insofferente a qualsiasi autorità, narcisista, amava essere sulle prime pagine dei giornali. Dopodiché però bisogna sempre ricordare che ha ucciso e quindi può anche risultare a tratti affascinante però resta un criminale e un assassino.
È anche un modo per raccontare le zone periferiche di Milano dei tempi. Erano molto diverse da oggi?
Si, Vallanzasca e Turatello nascono e crescono nel quartiere Lambrate. Quella era la loro zona, ai tempi un mondo a sé stante. Arrivare in centro dalla periferia era un viaggio, era la scoperta di un’altra Milano.
Puoi anticiparci i tuoi progetti futuri?
Sicuramente vado avanti con i podcast e con il teatro, raccontando altre storie.
Ti vedremo anche in TV?
Mi piacerebbe ma è difficile trovare dei progetti che vadano nella stessa direzione di come piace raccontare le storie a me. Vedremo se si apriranno delle possibilità.