Nel mio editoriale di agosto vorrei raccontare una storia, magari da leggere sotto l’ombrellone.
C’era una volta un Paese in cui molti dipendenti pubblici facevano i furbetti.
Non certo la maggioranza, ma comunque troppi. E se ne compiacevano, indirizzandoti pure uno sberleffo, qua e là.
Timbravano il cartellino e andavano a far la spesa. Oppure di cartellini ne timbravano otto: per sé e per tutto l’ufficio, in altre faccende individuali o collettive affaccendato. Capitava anche che scendessero in mutande, nella pausa tra una pennichella e una doccia, per compiere questo duro dovere.
E le telecamere, e i sistemi di controllo? Erano incredibilmente poco diffusi, nei luoghi deputati. Ma poi, è noto, in quel Paese fatta la legge – o approntata la contromisura – si scovava inesorabilmente l’inganno. Ed ecco che lo stipendiato dai cittadini, d’indole malandrina, ti si presentava alla macchinetta con le fattezze travisate, magari da un’improbabile scatola di cartone. Roba da far bollire il sangue nelle vene al medio pagatore di tasse e suggerirgli sanguinose e poco selettive rappresaglie.
Per inveterata abitudine o malinteso spirito di corpo i dirigenti sovente non vedevano, o non volevano vedere. Ma anche quando intendevano reagire al malcostume infingardo dei sottoposti, scoprivano spesso di avere le mani legate. Lacciuoli legali e baruffe chiozzotte con rappresentanze sindacali a parte, troppo difficile e onerosa la sorveglianza, l’acquisizione di prove, l’accumulo di evidenze sufficienti per inchiodare alle proprie responsabilità i malversatori della cosa pubblica.
E si percepiva la necessità di affidare le eventuali indagini agli investigatori al servizio dello Stato stesso, cioè Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza o corpi locali, pena l’ira funesta di arcigni magistrati controllori dei conti.
In quei tempi, d’altra parte, le forze dell’ordine avevano tutti i giorni ben altre gatte da pelare. La Repubblica, infatti, era squassata da sussulti criminali endemici ed emergenti. Occorreva contrastare, con pochi mezzi e ancor meno gratitudine, nuove e vecchie mafie, delinquenza comune di origine interna ed esotica, traffico di droghe assortite, truffe di ogni dimensione, corruzione a livelli africani, l’esplosione di violenze sessuali e femminicidi, sanguinose recrudescenze terroristiche internazionali, varie ed eventuali. Sanguinava il cuore e tremavano i polsi all’idea di distogliere i solerti tutori della legalità dalla difesa dei diritti fondamentali dei cittadini, per assegnarli al rimpiattino con i fannulloni salariati dalle loro stesse imposte.
Tutto questo fino al gennaio dell’Anno del Signore 2016, quando la storia parve avviarsi, finalmente, verso un lieto fine. Che noi, investigatori privati e affini, attendevamo e caldeggiavamo da tempo. Una sentenza dalla Seconda sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei Conti di Roma, infatti, riconobbe legittimo ingaggiare una società investigativa al fine di verificare l’effettiva esistenza di comportamenti illeciti di un dipendente anche nel settore pubblico.
Squillo di trombe, garrire di stendardi e vociar di popolo nelle piazze?
Nulla di tutto ciò. Solo – e ci pare poco? – la legittima soddisfazione di noi operatori del settore, il riconoscimento di una professionalità diffusa e capace di portare risultati veloci, efficaci, validi anche nel contesto della Pubblica Amministrazione e a vantaggio delle casse e dell’immagine statali, regionali, comunali, partecipate e miste. L’orgoglio di riuscire finalmente utili non solo al singolo, ma anche alla comunità, tramite il nostro impegno giornaliero.
E, infine, la speranza che lo spiraglio apra, in tempi brevi, un portone per competenze duramente acquisite e affilate sul campo.
Con la consapevolezza che, in quel Paese, quasi mai le storie vedono la definitiva parola fine.
Ma oggi possiamo attendere un poco più fiduciosi la prossima puntata.