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statua madre figlio

La Sindrome di Medea: quando una madre uccide

Lorys Stival, la piccola Diana, il delitto di Cogne fino ad arrivare al tragico caso di Voghera, dove una madre ha ucciso il figlio di un anno strangolandolo. La cronaca ci mostra che una madre può uccidere. Si chiama Sindrome di Medea. Cos’è? Da dove nasce? E soprattutto esiste un perché?

Da dove nasce la Sindrome di Medea?

La sindrome di Medea nasce da una delle tragedie greche di Euripide, una delle più disperate, eroiche e cariche di emotività dell’antica Grecia.

Medea è figlia della maga Circe, dalla quale eredita i suoi poteri magici. È profondamente innamorata di Giasone a tal punto da aiutarlo ad impossessarsi del vello d’oro tradendo la sua famiglia. Arriva, infatti, ad uccidere il proprio fratello affinché Medea stessa, il suo amato e gli Argonauti possano fuggire senza essere ostacolati da suo padre, poiché impegnato a raccogliere i resti del figlio.

Medea in seguito sposa Giasone e si trasferisce a vivere con lui a Corinto. Dopo alcuni anni, tuttavia, Giasone si innamora di un’altra donna molto più giovane di Medea. Ripudia, quindi, Medea per sposare Glauce, figlia del re di Corinto, Creonte, in modo da avere diritto di successione al trono.

Medea, distrutta dal dolore, prepara la sua vendetta: fingendosi rassegnata alla perdita del suo amore, manda un vestito avvelenato alla futura sposa come dono di nozze, la quale una volta indossato muore tra atroci dolori. Accecata dall’odio, Medea uccide anche i propri figli, in quanto discendenza di Giasone, eliminando ogni legame con l’ex amato. Per Medea l’unico modo per affrontare un simile dolore e superare l’umiliazione di essere stata ripudiata è proprio quello di uccidere i propri figli per vendicarsi dell’ex partner.

Cos’è la sindrome o il complesso di Medea?

Il “Complesso di Medea” fu utilizzato dallo psicologo Jacobs per indicare il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali. In epoca moderna, l’uccisione dei figli, nella concezione dello psicologo, l’uccisione dei figli, reale nell’opera di Euripide, diviene simbolica, finalizzata ad uccidere non il figlio stesso ma il rapporto di quest’ultimo con il padre.

Allargando la prospettiva, il complesso di Medea rimanda al concetto di “Alienazione Parentale” (PAS – Parental Alienation Syndrome), che può riguardare entrambi i genitori.

Quando si verifica?

Il complesso di Medea si riferisce a quello che a volte succede dopo una separazione o un divorzio nel momento in cui un genitore (o entrambi) mette in atto comportamenti finalizzati a distruggere la relazione dei figli con l’altro genitore, “uccidendo” il legame.

Così come è stata per Medea, si tratta di una vendetta che però non porta alcun beneficio a nessuno membro della famiglia. La violenza in questo caso non è fisica ma si trova su un piano più emotivo e psicologico.

Le madri

Secondo Gardner, psichiatra infantile e forense, le madri sono genitori “alienanti” molto più frequentemente di quanto lo siano i padri, dal momento che generalmente sono la figura a cui viene affidato il figlio. Rispetto al padre, le madri passano molto più tempo insieme ai figli e proprio questo tempo dà loro un maggiore potere, e una sorta di onnipotenza, nella relazione con i figli per cercare di “annientare” l’altro. Una madre che soffre della sindrome di Medea rischia di cancellarsi non solo come madre ma anche come donna.

Si tratta dunque di fattori che vengono scatenati da una crisi di coppia portata alle estreme conseguenze, per cui il genitore strumentalizza il figlio per vendetta e in cui la triangolazione familiare e la rabbia cieca sono il sintomo di una difficoltà a elaborare ciò che sta avvenendo. Questo provoca talvolta tragiche conseguenze come l’infanticidio.

Perché una madre uccide il proprio figlio?

L’infanticidio non è determinato da una singola ragione. Entrando nello specifico, tra le possibili cause della sindrome di Medea troviamo svariati fattori: individuali (età, livello d’istruzione, capacità intellettive e cognitive, salute mentale e fisica, presenza/assenza di esperienze traumatiche, legame affettivo-emotivo o no con il figlio), familiari (famiglia d’origine della donna, presenza di altri figli o gravidanze ravvicinate) situazionali (condizione economica-affettiva, gravidanza difficile, depressione post parto o psicosi puerperale).

Non solo, ma una madre sperimenta una serie di micro lutti: il momento della nascita, poiché subisce il distacco fisico definitivo con il figlio che avviene con il taglio del cordone ombelicale, la “sostituzione” del bambino immaginato durante la gravidanza con uno reale con bisogni reali e che vanno soddisfatti immediatamente, non da ultimo, l’idealizzazione della maternità e l’immagine di sé come madre.

Madri che uccidono i figli: le statistiche

Le statistiche ci dicono che sei bambini su dieci sono uccisi dalla madre. Molti decessi sono archiviati come accidentali o dovuti a cause naturali, senza contare centinaia di tentativi non riusciti.

Pare che l’infanticidio, in Italia, raggiunga numeri allarmanti: nelle statistiche sull’infanticidio che si leggono nel dossier di Eures, si evidenzia che “i figlicidi sono stati in totale 68 – nel dettaglio 18 nel 2015, 25 nel 2016 e 25 nel 2017. Quindi, dal 2000 al 2017 nel nostro Paese 447 bambini sono morti per mano dei genitori o familiari”.

La donna infanticida

Lo psichiatra Joseph C. Rheingold, nel suo testo del 1967 “The mother, anxiety e death: the catastrophic death complex”, scrive di “essere rimasto colpito dal numero di donne che, quasi con indifferenza, ammettevano il loro desiderio di abusare, violentare, storpiare o uccidere il proprio bambino. Non ho mai conosciuto un uomo con una tale animosità, sangue freddo, nei confronti dei bambini

Anche Cesare Lombroso ne aveva parlato nel suo “La donna delinquente, la prostituta, la criminale” scritto a quattro mani con il sociologo Guglielmo Ferrero spiegando così l’infanticidio e la sua correlazione con l’istinto materno: “Questa mancanza di sentimento materno diventa comprensibile se riflettiamo, da un lato, all’intervento delle caratteristiche maschili che impediscono alla criminale di essere più di una mezza donna, e dall’altro lato, a quel suo amore della dissipazione necessariamente antagonistico con i costanti sacrifici, richiesti ad una madre. Il suo senso materno è debole perché, psicologicamente e antropologicamente, essa appartiene più al sesso maschile che a quello femminile

Dal dramma di Medea alla psicopatologia del quotidiano

Come abbiamo visto, il significato della sindrome di Medea è complesso e legato a situazioni emotive e psichiche di fragilità, depressione, solitudine e senso di trascuratezza.

Una madre assassina, nella propria infanzia, probabilmente ha sviluppato uno stile di attaccamento insicuro o di tipo disorganizzato con la propria madre. Ciò però non significa che una donna o una bambina con attaccamento insicuro è o sarà una madre assassina del proprio bambino.

Questo perché bisogna tenere conto dell’influenza delle variabili quali ambiente, esperienze e vissuto emotivo. Quindi è plausibile che ci potrebbe essere un maggior rischio con questo stile di attaccamento, ma questo da solo non comporta nulla.

In una madre che uccide il figlio c’è un attaccamento con il proprio bambino? Se sì, quale?

Alcuni studiosi ritengono che ci sia un attaccamento tra madre e bambino, non sano, anche in caso di infanticidio. Una mamma, infatti, nel momento di uccidere il figlio, si arroga il diritto di vita o di morte su di lui, perché dice “Io l’ho generato, io posso ucciderlo”.

Altri invece sostengono che non vi sia assolutamente attaccamento, perché altrimenti entrerebbe in gioco l’istinto materno che impedirebbe il gesto mortale. Questa tesi, però, non tiene conto dei casi di madri con psicopatologie gravi o tossicodipendenze. In ogni caso, anche in assenza di psicopatologie o tossicodipendenze, una madre può decidere in maniera razionale di togliere la vita al figlio.

Il noto psichiatra Alessandro Meluzzi, ha indagato proprio i temi dell’istinto materno e dell’interpretazione che la società fa di un tale efferato atto, partendo dal mito di Medea per arrivare ai casi di madri che uccidono i figli in Italia.

Afferma lo studioso che nell’ambito della psichiatria e della psicologia restano oggetto di indagine le cause della sindrome di Medea: la percezione di estrema “trascuratezza emotiva” che la persona subisce, porta a un desiderio di vendetta che può avere tragiche conseguenze.

Le mamme che uccidono i propri figli sono pazze?

Per una sorta di “sicurezza” collettiva e individuale, si è portati a sostenere che una madre uccide il proprio figlio è una madre che “non sta bene con la testa”. Affermare questo significa che un evento così efferato e contro natura è innanzitutto un caso limite ma, al contempo, può essere categorizzato e “giustificato” razionalmente e in modo tollerabile. Purtroppo, però, ci sono tante cause che sono razionali e al contempo assurde.

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