Un vero e proprio disturbo che porta nelle donne disadattamento, paura e apatia. Nel 2005 due psichiatri di Kiev hanno dato un nome a questo comportamento, osservando sintomi sempre più comuni tra le donne rumene, ucraine, polacche, moldave e filippine in Italia per assistere anziani e persone non autosufficienti
Tate, colf, badanti che giungono in Italia per lavoro. Storie di vita racchiuse nella scelta di lasciare il proprio Paese per poter sopravvivere. È stata soprannominata “Sindrome Italia” ed è un fenomeno sociale e medico di cui si parla poco. Dal punto di vista criminologico e comportamentale si crea un vero e proprio legame affettivo della donna con la persona che cura a seguito del protratto rapporto di lavoro e umano, allontanarsi può essere difficile e traumatico. Quali sono i sintomi riscontrabili in queste donne? Tra le patologie al momento ravvisabili, ma non riconosciute, possiamo riportare la sindrome post traumatica da stress e asocialità. Ma scorgiamo anche un disadattamento della donna ad una vita che in realtà non riconosce più. Ansia, stress, angoscia e paura. Cattivo umore, inappetenza, tristezza, mancanza di sonno e tendenze suicide. Tutti sintomi riconducibili al trauma del distacco. A volte questi momenti di scoramento possono trasformarsi in veri e propri stati di trance. Una perdurante apatia che porta la donna a non riconoscere i suoi cari, allontanandosi da loro. Per comprendere di cosa parliamo ho chiesto aiuto a chi ogni giorno si confronta con questo problema, come Adriana Patrichi, Attivista dei Diritti per le Donne Romene.
Dottoressa Patrichi, che cosa si intende con il termine “Sindrome Italia”?
Parliamo di una forte depressione sviluppata dalla donna negli anni di lavoro a causa della lontananza dalla propria terra e dai propri cari, incrementata da condizioni di lavoro stressanti e ritmi stancanti. Circostanze che si uniscono ad una mancata integrazione nel tessuto sociale e dei servizi di ogni genere utili al cittadino/a straniero/a per poter condurre una vita normale, al di fuori del lavoro. Tutto questo porta ad una difficoltà di reinserimento nel proprio Paese che la persona ha lasciato sposando il progetto migratorio e sopraggiungendo in Italia dalla Romania, Polonia, Macedonia. Una società nella quale non si ritrova più e che al suo rientro dall’Italia non offre nessun tipo di sostegno. E’ riduttivo parlare di questo malessere solo in termini strettamente tecnici senza cercare di capire da dove nasce e quale sono i moventi.
Potrebbe fornire qualche dato su questo fenomeno?
Si, partiamo dai dati ufficiali anche se le stime non sono mai esatte per colpa di una mancata regolarizzazione. Il numero complessivo dei lavoratori domestici viene stimato all’incirca su due milioni di persone di questi il 60% irregolari, 73,1% dei lavoratori domestici stranieri e il 43% provenienti dall’Est Europa. Nel 2019 – come specificato dalla Fondazione Leone Moressa – i lavoratori domestici regolari erano 865mila, 54,4% colf e 45,6% badanti che hanno prodotto una ricchezza pari a 19 miliardi di valore aggiunto. Le Regioni in cui sono presenti più lavoratori domestici regolari sono Lombardia, Sardegna, Lazio, Umbria, Toscana. In fondo alla lista troviamo la Calabria con solo 13.545 lavoratori regolari rispetto ai 156.092 regolari della Lombardia. Questi dati ci mostrano che la fascia dei lavoratori irregolari è molto più ampia rispetto a coloro che possono usufruire dei servizi nazionali come il servizio sanitario. Va sottolineato che la richiesta di lavoro domestico è in continuo aumento viste le previsioni sull’incremento della popolazione anziana nei prossimi anni in Italia.
L’ospedale psichiatrico di Socolo ospita tante donne vittime della “Sindrome Italia” che hanno difficoltà nel ritornare alla loro vita. Da noi se ne parla ancora poco. Esistono delle associazioni che tutelano o aiutano queste donne?
L’ospedale psichiatrico di Socolo (Romania) è l’unico nosocomio in cui si studia questo fenomeno, al solo scopo di accendere i riflettori su questo delicato aspetto trascurato anche dalle autorità romene. La mancanza di una legislazione, incoraggia l’incremento delle assunzioni che non rispettano i diritti dei lavoratori. Nel nostro caso facciamo riferimento ad un orario di lavoro più consono e ridotto, con intervalli di riposo che possano permettere alla lavoratrice di avere una vita sociale e con la possibilità di accedere ai servizi sanitari, in quanto ammalarsi significa perdere il lavoro. A queste donne mancano spazi di convivenza sociale da frequentare nelle poche ore di riposo. Sembra una cosa marginale ma non lo è perché questo non fa altro che aumentare la loro solitudine e fa sentire queste donne non appartenenti al proprio posto di lavoro. Sentimento che poi rivivono al ritorno nel loro Paese di origine. Ad accendere i riflettori e battersi per far emergere questo problema è l’associazione ADRI di Milano che da anni parla di questo fenomeno, manca però il supporto dello Stato. Ecco perché noi, che cerchiamo di comprendere e di aiutare queste persone, spesso ci troviamo nell’impossibilità di poter mettere in piedi progetti di sostegno che comprendano misure di prevenzione. Questo fenomeno colpisce non solo la persona, ma anche la società. Senza un’attenzione e delle misure urgenti si rischia di avere a che fare con un pericolo dramma sociale.