Il mondo delle carceri non fa altro che riflettere la società in cui viviamo
“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. La frase, attribuita a Voltaire, è molto conosciuta. Presa come esempio e da analisi sociale nella contemporaneità. Il grande pensatore illuminista infatti, non viene mai ricordato per le sue invettive contro le carceri disumane, poiché si tratta di un autore troppo scomodo nell’Era del giustizialismo imperante. Ad oggi però, queste parole echeggiano più attuali che mai. Tortura, violenza privata ed abuso di Autorità sono tre delle tante illegalità ed ipotesi di reato che rimbalzano di carcere in carcere in tutt’Italia e che hanno come protagonisti non solo i detenuti ma spesso, anzi, sempre più spesso agenti di polizia penitenziaria e funzionari amministrativi di Istituti Penitenziari. Ci troviamo di fronte ad una violenza generalizzata che porta il 2020 ad essere definito un “Annus Horribilis” non solo per la pandemia da CoronaVirus ma anche per la violenza, i pestaggi e le manganellate che danno vita ad un assordante silenzio di degrado sociale.
Con il Codice Penale Rocco del 1930 si attribuiva alla pena un carattere affittivo ed intimidatorio. L’ istruzione, il lavoro, la religione erano considerati gli unici mezzi attraverso i quali rieducare e risanare i condannati, oltre ad essere considerate attività obbligatorie con severe punizioni nei confronti di chi assumesse una condotta irregolare e si rifiutasse di parteciparvi. I detenuti erano considerati come ”soggetti patologici”, da curare e diagnosticare la loro guida era spesso affidata ad uno psichiatra e, per chi era reputato socialmente pericoloso, il carcere costituiva prevalentemente un luogo di “custodia”.
Nell’ordinamento vigente la funzione retributiva è stata assai mitigata per perseguire lo scopo del reinserimento sociale del condannato; è importante che ci sia partecipazione, collaborazione, motivazione da parte del soggetto detenuto, ritenuto persona “in divenire” in continuo cambiamento. E’ quasi del tutto scontato fare un rifermento ai fratelli Gabriele e Marco Bianchi. Al momento detenuti nel braccio G9 al primo piano del carcere di Rebibbia, quello dove sono rinchiusi i detenuti più pericolosi e più a rischio ritorsioni come pedofili, collaboratori di giustizia e stupratori. I due sono accusati con Mario Pincarelli dell’omicidio del giovane Willy Monteir Duarte, in seguito ad un brutale pestaggio a Colleferro.
Il mondo delle carceri è talmente pregno di violenza e atti criminosi che ci risulta quasi normale pensare ad altri reclusi che non vogliono i fratelli Bianchi accanto. L’associazione “Detenuti Liberi” dichiara che i fratelli di Artena avrebbero litigato con un marocchino che si era rivolto a loro mentre si recavano in parlatorio. L’episodio ha spinto la figlia dell’uomo a chiedere la protezione dai fratelli Bianchi al Garante del Lazio, Stefano Anastasìa.
Urla e insulti contro i fratelli si susseguono di notte e di giorno, e si parla persino di “sputi nei piatti in cui mangiano”.
A mio avviso, il problema carcerario non è soltanto la dimensione fisica della reclusione ma si pone anche dopo, quando una volta fuori bisogna ricominciare a vivere in una società troppo stretta per alcuni “personaggi” divenuti tali grazie anche ai talk show e al mondo dei media. Il rischio che si presenta è quello di ritrovarsi nuovamente nella situazione di partenza. Ovvero ricominciare a delinquere. Le galere sono lo specchio della società, non fanno altro che riflettere i suoi problemi, dal momento che si smette di parlarne, di dialogare con chi ci vive e ci lavora inevitabilmente tornano le tensioni, sale ed esplode la rabbia.