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Mafia in Lombardia, Mattioni: “Non spara quasi più, propone buoni affari a imprenditori e politici”

In Lombardia la mafia c’è, eccome, ed è sempre più radicata. Non è la mafia di una volta. Si presenta in giacca e cravatta e parla con imprenditori e politici, proponendo buoni affari e voti alle elezioni.

Nella ricca Lombardia la mafia banchetta e diventa una multinazionale del crimine. Ne è l’ennesima prova l’osservatorio “Mafia ed economia in Lombardia”, pubblicato nel giugno 2024 e realizzato dal Dipartimento Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università di Milano e dalla Cgil Lombardia.

Quel che emerge è una regione dove la ‘ndrangheta spadroneggia in tutte le province, ma non manca la presenza di Cosa Nostra e Camorra.

Le famiglie malavitose sono presenti soprattutto nella Lombardia occidentale. A Milano, Brescia, sul Lago di Garda la criminalità organizzata è sempre più radicata, ma le mani della mafia si stanno allungando anche in aree finora non interessate dal fenomeno, come la provincia di Sondrio e di Como.

I mafiosi sono sempre più bravi a mimetizzarsi: si laureano nelle università lombarde, prendono la residenza in Lombardia, fanno impresa, si candidano alle elezioni locali o diventano “consulenti” di imprenditori e politici.

E hanno soldi, tanti soldi da investire per ripulirli. Ecco allora che i fondi del PNRR, il Superbonus, ma anche gli appalti per le Olimpiadi invernali e non solo, diventano territorio di conquista.

Edilizia, logistica, sanità, ristorazione, sport, tempo libero. Per la mafia nella Lombardia operosa e imprenditoriale le possibilità di riciclaggio si moltiplicano.

E poi c’è la politica, perché oggi per qualche voto in più non si guarda in faccia a niente e nessuno.

Ne abbiamo parlato Ersilio Mattioni, giornalista che ha fondato e diretto il settimanale “Libera Stampa l’Altomilanese”, collaboratore de “Il Fatto Quotidiano” e di “Millenium”, autore del libro “La corruzione elettorale politico-mafiosa in Lombardia”, pubblicato da RCS all’interno della collana “Mafie. Storie della criminalità organizzata”.

Oggi la situazione è preoccupante, ma quando è arrivata la mafia in Lombardia?

Volendo fare una breve genesi delle infiltrazioni dobbiamo partire dal 1965, anno in cui per la prima volta la parola “mafia” compare in una legge italiana. Per questo venne definita la prima legge antimafia, esagerandone la portata visto che in realtà è una norma sul soggiorno obbligato ed estende il domicilio coatto anche ai mafiosi.

In pratica questa legge prescrive che una persona vicina a una cosca o parte di essa, può essere spostata dal suo paese d’origine e mandata altrove. Che sia Milano, Torino, Valle d’Aosta, Liguria, purché sia lontana dalla sua terra natia.

L’idea alla base della norma era che la mafia fosse un fenomeno fortemente legato al territorio e che quindi un boss potesse esercitare il suo potere coercitivo in una certa area, perché per ragioni storiche, culturali, sociologiche si prestava a essere fertile per lo svilupparsi di certe dinamiche.

Del resto, dove lo Stato non c’è o c’è poco, il mafioso assume più potere perché è la persona che risolve i problemi, trova un posto di lavoro, presta denaro e via dicendo.

Quindi la convinzione del legislatore era che spostando il mafioso al Nord si potesse sradicare il fenomeno. In realtà è successo esattamente il contrario. Tant’è che il decennio dal ‘65 al ‘75 viene chiamato “il decennio del contagio”. In quel periodo arrivarono nel Nord Italia ben 600 boss mafiosi, di cui 350 solo in Lombardia, che si stabilirono in varie zone della regione.

Purtroppo, puoi spostare il mafioso dove vuoi ma quello sa fare. Anche se lo porti in un altro posto continuerà a fare il criminale.

E così il boss inizia a delinquere al Nord, rendendosi conto di due cose. La prima che ci sono molti compaesani perché nel dopoguerra c’è stata una forte migrazione da Sud a Nord in cerca di lavoro. La seconda che si trova in un terreno incredibilmente fertile per insediarsi, perché le mafie inseguono una sola cosa: i soldi e la Lombardia è molto ricca, Milano è molto ricca.

In una società in cui il profitto è in cima alla scala valoriale, la mafia va a nozze perché va da un imprenditore, gli chiede per esempio quanto spende per smaltire i rifiuti e gli propone di smaltirli alla metà del costo.

A quel punto è difficile dire di no, anche se si intuisce che sotto una certa cifra i rifiuti possono solo essere smaltiti in modo dubbio. E in effetti finiscono sottoterra, in una cava, in un terreno dove poi magari in futuro si costruiranno un asilo nido o una scuola. Si avvelenano territori e persone soltanto per fare più profitti.

In effetti ora il mafioso è ben lontano da come ce lo si immaginava tempo fa, con coppola e lupara. La mafia è cambiata, forse per questo è ancora più pericolosa?

Infatti, il mafioso ora si presenta come un uomo d’affari, ben vestito, con una bella macchina che propone un accordo che viene accettato perché se ne ha un tornaconto.

Un’evoluzione molto pericolosa. Tanto che la Lombardia è passata, senza accorgercene, dal fenomeno degli anni Sessanta-Settanta delle infiltrazioni, a vere e proprie penetrazioni a livello più profondo e in alcuni casi, in alcune zone della regione, come delle fasce della Brianza, a colonizzazioni.

Abbiategrasso, Sedriano, Castano Primo, Inveruno, Rho, solo per fare alcuni nomi. Perché le mafie scelgono cittadine o piccoli paesi di provincia per insediarsi?

Scelgono la provincia per varie ragioni. Una di queste è la scarsa attenzione mediatica. Difficilmente la stampa locale si occupa di criminalità organizzata e quindi puoi fare i tuoi affari senza essere disturbato dal controllo sociale.

I magistrati spesso arrivano in certe zone solo quando ricevono segnalazioni e la stampa è un divulgatore, un megafono di un disagio o di un problema. Se la stampa tace, si passa inosservati ed è proprio quello che i criminali vogliono.

E poi si possono mischiare più facilmente nel tessuto locale. Se un boss in un paesino comincia a frequentare il bar, i negozi, la chiesa, la piazza, conosce le persone del posto, e diventa un cittadino come gli altri, una persona con rapporti e relazioni, che viene salutato quando lo si incrocia per strada. A quel punto è integrato e schermato.

In “La corruzione elettorale politico-mafiosa in Lombardia” descrivi due inchieste che hanno profondamente segnato la regione. Perché sono state così importanti?

Nel libro racconto due inchieste avvenute a una decina di anni di distanza l’una dall’altra.

La prima è stata nominata Grillo Parlante e nasce quando un assessore regionale compra 4000 voti dalla ‘ndrangheta pagandoli 200.000 euro. Era il 2012, sono passati 12 anni e nessuno se la ricorda più. Eppure, è stata forse l’inchiesta più importante degli ultimi trent’anni sulla corruzione elettorale politico-mafiosa.

La seconda è invece recentissima. Si chiama Hydra, è dell’ottobre 2023 e purtroppo anche di questa inchiesta non se ne parla più, nonostante abbia permesso di comprendere l’evoluzione delle mafie.

La direzione distrettuale antimafia di Milano ha, infatti, documentato ventuno incontri in due anni, avvenuti in vari luoghi della provincia di Milano, in cui al tavolo si sono sedute famiglie di camorra, di ‘ndrangheta, di cosa nostra.

Le cosche non si fanno più la guerra fra loro come si potrebbe immaginare, ma fanno la pace. Del resto, ce n’è per tutti, non ha senso perder tempo ed energie a farsi la guerra, basta decidere come spartirsi il bottino.

La ‘ndrangheta è la più forte in assoluto in Lombardia e se si mettesse a fare la guerra, probabilmente sbaraglierebbe quale poche sacche che sono rimaste di mafia siciliana e di camorra, ma ha capito che è meglio stare in pace facendo in modo che tutti abbiano una fetta della torta.

È questa la grande evoluzione delle cosche: si è creato un “consorzio delle mafie”, una sorta di cupola criminale.  E purtroppo non abbiamo ancora capito quanto questo fenomeno sia pericoloso e serio.

Il nome Hydra si rifà al mostro mitologico a sette teste. In questo caso le teste sono le famiglie criminali affiliate a ndrangheta, camorra e cosa nostra. Questo mostro si sta divorando tutta la Lombardia, senza che ce ne sia la percezione perché non si quasi ammazza più, non si spara quasi più, non si pratica più la violenza se non quando è assolutamente indispensabile.

Chiaro che alcuni metodi intimidatori sono rimasti, ma a questi si affianca un metodo operativo. Il decadimento socioculturale del mondo dell’impresa e della politica ha fatto sì che bastasse proporre un buon affare o dei voti alle elezioni per trovare la porta aperta.

La mafia non ha più bisogno di sparare per ottenere quello che vuole.

Ad alimentare la criminalità organizzata è, dunque, secondo te, il decadimento socioculturale della società?

Sì, credo che questo sia dovuto anche al crollo delle ideologie. La coscienza ideologica genera degli anticorpi e uno scudo che impedisce di alimentare certe dinamiche.

Ma oggi siamo in una società a-ideologica, per cui se un malavitoso propone a un candidato voti in cambio di favori, il politico di norma accetta.

Abbiamo di che temere perché, se la politica non fa argine, anzi, se è connivente siamo spacciati e a volte è connivente senza rendersi conto di quanto questo sia pericoloso, senza riconoscere che dietro a una manovra di voti c’è la criminalità, che poi ti chiede il conto e ti lega s sé per sempre.

Magari l’incontro per siglare lo scambio viene fatto prendendo un aperitivo al bar e comunque non certo in una cantina, di nascosto. È tutto alla luce del sole.

È così tutto alla luce del sole che dalle intercettazioni di Hydra, Paolo Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro, chiama serenamente il sindaco di Abbiategrasso per farsi sistemare un problema con la concessione del dehor del suo locale. Non è assurdo?

Già, è sorprendente che un pregiudicato per mafia (Parrino ha una condanna a 10 anni per mafia scontata negli anni ’90) possa chiamare il sindaco sul telefonino e il sindaco il giorno dopo vada nel suo bar e discuta con lui per trovare una soluzione.

Come se non fosse tutto già molto strano, in questa discussione Parrino dice che il dirigente del Comune che deve valutare la sua pratica gli ha rotto le scatole e minaccia di staccargli la testa. Il sindaco si fa una risata, invece di interrompere la conversazione e andare dai carabinieri.

Il sindaco ha dichiarato di non averla presa come una minaccia ma come una frase buttata lì. Ok, ma questa frase è stata detta da un pregiudicato per mafia, non da una persona comune in un momento di rabbia.

Tutto questo lo si è saputo soltanto perché una cimice ha registrato l’incontro.

E per fortuna che lo si è saputo, ma cosa si può fare per scongiurare situazioni del genere?

Secondo me, dobbiamo smetterla di aspettare che arrivino poliziotti, carabinieri e magistrati a fare gli arresti, l’inchiesta, i processi e le condanne perché a quel punto è già tutto accaduto.

Le forze dell’ordine e la magistratura fanno un’opera repressiva. Dobbiamo abituarci, noi cittadini, a fare opera preventiva, cioè a giudicare i comportamenti dei politici e dei pubblici amministratori.

Un comportamento può anche non essere reato, vedi il caso di questo sindaco che si fa una risata di fronte a una minaccia, però è un comportamento preciso e circostanziato. Come tale, dovrebbe essere valuto politicamente dagli elettori.

Ecco, se noi vogliamo prendere in mano questo problema dobbiamo cominciare a praticare una cittadinanza attiva. Renderci conto di chi abbiamo davanti e votare consapevolmente.

Informarci, mettere sul tavolo tutti i comportamenti dei politici e decidere se votarli o non votarli in base a quel che hanno fatto e detto, senza aspettare che altri indaghino, arrestino, processino e condannino.

Politici e classe dirigente devono essere selezionati sull’etica e sulle capacità. A chi dice “quel politico è onesto” io rispondo sempre: “E ci mancherebbe che non lo fosse, l’onestà non è un merito. E’ una pre condizione per poter fare politica”.

Quali sono i settori più a rischio mafia in Lombardia?

In Lombardia la mafia ormai è quasi tutta sostanzialmente ‘ndrangheta e la ‘ndrangheta ha un giro di circa 50 miliardi di euro all’anno, di cui una ventina prodotta in Lombardia.

La droga è in assoluto il business principale e poi ci sono il traffico dei rifiuti, il gioco d’azzardo, la prostituzione, il traffico di organi, il traffico di armi, l’usura, il movimento terra.

A proposito di quest’ultimo, che sembra poca cosa. La ndrangheta è di bocca buona, nonostante sia ormai una multinazionale del crimine, non disdegna nulla, nemmeno lavoretti da 10-15.000 euro. Per fare movimento terra non devi avere grandi aziende, basta prendere un subappalto e il movimento terra serve all’edilizia e a nascondere i rifiuti illeciti.

Con un giro d’affari così, come riescono a riciclare tutti quei soldi sporchi?

Questo è il punto. Oggi è il problema della ‘ndrangheta non sono i soldi, ne ha talmente tanti che non sa più dove metterli. Il tema è il riciclaggio e il Nord e la Lombardia si prestano benissimo a questo perché si può investire in immobili, comprare attività, bar o ristoranti.

Ed è in quel momento che bisogna intervenire. Perché, quando si perde la pista dei soldi sporchi, questi si mischiano all’economia pulita, a quel punto non c’è più niente da fare, non possono più essere rintracciati.

Con la riforma della giustizia e le nuove indicazioni sulla pubblicazione delle intercettazioni, pensi ci sia un reale rischio di bavaglio?

Lo dico chiaramente anche nel libro: se fosse stata già in vigore la riforma della giustizia, che impedisce ai giornalisti di pubblicare le ordinanze dei Gip, non avrei potuto raccontarla l’inchiesta Hydra.  Ho potuto esporre i fatti e mettere in fila, nero su bianco, grazie all’appoggio delle carte giudiziarie.

Se togli a un giornalista questa possibilità, a tutti gli effetti metti un bavaglio all’informazione e questo bavaglio, secondo me, serve non tanto a proteggere i mafiosi, bensì quei politici che hanno rapporti spregiudicati con i mondi del crimine organizzato.

A questo aggiungi anche che solo giornalisti con testate importanti alle spalle possono permettersi di fronteggiare eventuali denunce, ma come fanno i giornalisti che lavorano per testate locali o i freelance? Basta una querela o una causa civile per rovinarti.

Andrà a finire che molti giornalisti si rassegneranno al fatto che alcune storie non potranno essere raccontate o potranno esserlo solo alla fine, depurate da tutti quei fatti che magari non sono un reato ma che è bene che l’opinione pubblica conosca.

Già l’Italia non brilla per libertà di stampa. Così facciamo un altro passo indietro.

E quindi lasciate ogni speranza voi giornalisti che volete fare seriamente il vostro lavoro?

No, anzi, ci tenevo a dire che l’idea di questo libro nasce nel 2012, mentre seguivo l’inchiesta Grillo Parlante. Ai tempi avevo pensato che mi sarebbe piaciuto scriverne, poi però non ci sono riuscito, perché un libro richiede molto tempo e anche trovare un editore che lo pubblichi.

Questa idea rimane in un cassetto fino a quando, undici anni dopo, mi imbatto in un libro della collana “Mafie. Storia della criminalità organizzata” venduta con la Gazzetta dello Sport. Leggo l’elenco delle uscite e noto che non c’è questa grande inchiesta sulla corruzione elettorale politico-mafiosa in Lombardia.

Così contatto la curatrice, la professoressa Barbara Biscotti, proponendomi per scrivere di questa storia. Mando la sinossi e lei mi risponde che è un tema interessante, ma non sa se la collana andrà avanti.  Passano i mesi e poi una mattina ricevo una sua telefonata ed ecco qua il libro.

Ai giornalisti che si occupano di argomenti scomodi, dico di non demordere, di non rassegnarsi, perché la vita è una combinazione di lavoro, competenza e fortuna.

Quindi, se è vero che, come nel caso della pubblicazione del mio libro, ci vuole un pizzico di fortuna, è anche vero che fare bene il proprio lavoro può premiare. Capita di trovare una persona seria e competente, che valorizzi il tuo lavoro. A me è successo. Può succedere a chiunque lavori con impegno.

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