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Il momento dell'arresto del boss latitante Matteo Messina Denaro

Matteo Messina Denaro, ascesa e declino del boss. Ora si pentirà?

L’ultimo grande boss era diverso dagli altri. Nella forma. Solo nella forma. Matteo Messina Denaro, contadino di nascita, come loro, arrivava dai campi, dalla fatica della terra, dalla provincia più interna dove le cose si muovevano inevitabilmente più lente, ma era diverso, all’apparenza.

Matteo Messina Denaro amava il lusso e lo ostentava, belle macchine, bei vestiti, belle donne. Diverso da Riina e Provenzano, con i loro abiti dimessi, trasandati, mai curati nell’aspetto e lontanissimi dal lusso e dalla modernità.

Il particolare determinante nella sua cattura è stato un orologio Frank Müller da 36mila euro, è stato quello a dare la conferma agli inquirenti che quel sessantenne malato era il super latitante Messina Denaro. L’inafferrabile, l’uomo senza volto.

Matteo Messina Denaro, il giovane di bottega dei corleonesi

Dal “capo dei capi” era separato all’anagrafe dai tre decenni. Quando Riina veniva arrestato nel gennaio del 1993 aveva 62 anni, mentre Matteo Messina Denaro ne aveva 30. Un divario generazionale che appunto lo ha differenziato nella forma e nello stile di vita, anche da latitante.

Non si nascondeva nei tuguri, non stava rintanato in cantine o garage. Era un uomo che amava il piacere e si concedeva viaggi e mondanità: tra le tante leggende, non riscontrate, quella per cui sarebbe andato anche allo stadio nel maggio 2010 per un decisivo Palermo-Sampdoria, uno spareggio per la Champions vinto dai genovesi.

Ecco chi era all’apparenza Matteo Messina Denaro, il picciotto della provincia trapanese, figlio di una famiglia contadina di Castelvetrano, entrato in Cosa Nostra ancora minorenne a fine anni ‘settanta e poi cresciuto da giovanotto senza scrupoli all’ombra dei corleonesi che scalavano la cupola palermitana a suon di omicidi.

Allevato da mafioso tra delitti e stragi, sporcandosi le mani fin da giovanissimo con omicidi e violenze.

Messina Denaro, assassino e stragista

Diverso nella forma da Riina, Provenzano e Bagarella, identico nella sostanza, di assassino e stragista.

Già prima del terribile biennio stragista tra il 1992 e 1993 gli venivano attribuiti decine di omicidi, commessi o decretati. Avrebbe dovuto far saltare per aria Maurizio Costanzo, era nel gruppo che avrebbe dovuto uccidere Giovanni Falcone a Roma. Ha avuto un ruolo, esecutivo e progettuale, nelle stragi di Capaci e via D’Amelio e in quelle del 1993 a Firenze e Milano.

Senza dimenticare gli altri orrori: l’uccisione di una donna incinta al terzo mese, strangolata solo per essere la moglie di un pentito, e poi il coinvolgimento nel rapimento del piccolo Nino Di Matteo, sciolto nell’acido.

L’ascesa del boss negli anni Novanta

Gli arresti di Riina e Bagarella, e di altre figure importanti nella cupola corleonese, e l’invecchiamento di Provenzano gli hanno spianato l’ascesa.

Messina Denaro nella seconda metà degli anni ’90 ha accantonato tritolo e lupare per sfruttare la potenza economica della sua ‘cosa nostra’, meno plateale, meno cruenta, quasi invisibile anche se gli omicidi sono continuati.

I legami con l’Ndrangheta e con le organizzazioni criminali americane e della Colombia hanno aumentato il business della droga e i proventi, il resto lo hanno fatto le sponde con l’imprenditoria foraggiata con denari illeciti da riciclare. Una mafia cambiata nella forma, non nella sostanza del mare di affari sporchi in cui i clan hanno sempre navigato.

Uomo solo al comando

Dal 2006, con la cattura di Provenzano, resta un uomo solo al comando. Giovane, poco più che quarantenne, senza bisogno di fare guerre interne o allo Stato. Il sangue versato negli anni Ottanta e Novanta ha cementato il suo potere. E la sua rete di coperture e protezioni.

Negli ultimi vent’anni un fiorire di pentiti ha fornito versioni contrastanti sul suo ruolo nella trattativa tra Stato e mafia, sulle carte scottanti trafugate dai covi palermitani di Totò Riina (forse anche le agende rosse di Borsellino), sugli appoggi ricevuti da ambienti istituzionali che ne hanno favorito la latitanza e rimandato la cattura.

Ci sarebbe stato lui dietro all’arresto di Provenzano, consegnato allo Stato, ma anche su questo restano versioni contrastanti.

La malattia e il declino

Da oltre un anno pentiti e fiancheggiatori sussurravano, anche in interviste televisive, che era malato, solo, che la rete intorno a lui era ormai esigua e che la cattura era vicina.

Il destino ha voluto che lo prendessero esattamente 30 anni e un giorno dopo Totò Riina, a chiudere un cerchio durato tre decenni.

Ora si pentirà?

Il grande interrogativo ora è legato ad una sua collaborazione con la magistratura. Annunciata difficile.

Matteo Messina Denaro non ha una famiglia ufficiale, è un uomo solo, malato. Ma potrebbe restare fedele alla sua figura di ultimo grande boss e chiudersi in silenzio, cercando di gestire anche dal 41 bis (scontato nel suo caso) il potere e gli affari. Ma anche questo è uno scenario difficile.

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