Il giornalista di cronaca nera, autore e conduttore di programmi TV, Giuseppe Rinaldi, torna sul caso del Mostro di Firenze con un libro destinato a far discutere. In un’intervista rilasciata a ForensicNews spiega i passaggi poco chiari della vicenda e ripercorre le tappe cruciali della sua lunga carriera.
Autore e volto storico di “Chi l’ha visto?”, ma anche conduttore di “Detectives – Casi risolti e irrisolti”, “Commissari”, “Faking it”, solo per citare alcuni dei suoi programmi di successo, Giuseppe Rinaldi è uno dei giornalisti di cronaca nera più autorevoli e scrupolosi.
Dal modo di fare pacato, lontano da un giornalismo urlato e alla ricerca del sensazionalismo, la carriera di Rinaldi è segnata da alcune interviste che hanno fatto la storia.
A lui Ferdinando Carretta confessò di aver ucciso il padre, la madre e il fratello, dopo dieci anni dalla scomparsa della famiglia. Fu una sua intervista a Salvatore Parolisi a contribuire in modo determinante alle indagini sull’assassinio di Melania Rea.
Ora sta per uscire il suo libro sul Mostro di Firenze, destinato a riaccendere i riflettori su quei tragici duplici omicidi avvenuti sulle colline fiorentine fra il 1968 e il 1985. Di questo e tanto altro abbiamo parlato nell’intervista che Pino Rinaldi ha rilasciato a ForensicNews.
Cosa l’ha spinta a occuparsi di cronaca nera?
Questa è una domanda che mi sono fatto molte volte. Perché mi occupo di questo e non di altro? Ho iniziato a fare questo lavoro un po’ per caso perché all’epoca, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, si facevano dei veri e propri film sui casi di cronaca, delle ricostruzioni in pellicola. Ai tempi, il mio sogno era quello di fare il regista ed è così che mi sono trovato a vivere questa esperienza.
Un’esperienza particolare perché con Chi l’ha visto?, ma anche con altri programmi che ho fatto, il tema centrale è che in quelle condizioni, le persone che hanno avuto un lutto o gli è scomparsa una persona cara, mettono sul tavolo loro stesse. Si stabilisce un rapporto di grande verità.
Io sono una persona autentica, dico quello che penso. A me non piace avere rapporti superficiali, voglio stabilire rapporti veri, seri, profondi.
Ecco, nel caso specifico incontrando queste persone io mi sono reso conto che lì in automatico scattava un meccanismo per cui ci si spogliava delle proprie maschere e c’era autenticità.
Al tempo stesso, sento dentro di me la voglia di dare un contributo e un aiuto a chi vive un dolore, un’ingiustizia, a chi sta attraversando un momento difficile.
Cosa pensa del modo di fare informazione che imperversa su giornali e in TV, guidato dagli ascolti, dai click e dal sensazionalismo?
In TV spesso c’è un meccanismo morboso nella narrazione della cronaca nera. Un modo di lavorare che non mi appartiene, non fa parte del mio DNA e che proprio non mi interessa.
Anzi, quando mi sono trovato a dover seguire casi appena accaduti, molto mediatici, ho provato spesso un senso di grande fastidio perché avevo la consapevolezza che una parte di voyeurismo era intrinseca ed era anche inutile.
A me piace lavorare su fatti di cui conosco perfettamente tutto quanto, mi interessano i cold case, i casi dove c’è la possibilità di ottenere le indagini svolte e consultare tutta la documentazione in merito.
E credo nella libertà di critica e di pensiero. Se un giornalista arriva a pensare che un’inchiesta sia stata fatta in modo approssimativo, è giusto che possa sostenerlo e seguire la sua linea. Anche per questo condivido la battaglia che sta portando avanti Antonino Monteleone de Le Iene per quanto riguarda Olindo e Rosa. In quel caso troppe cose non tornano.
Spesso invece in TV vedo programmi che danno spazio a chi crea tensioni solo per fare audience, i temi sono affrontati con grande superficialità e ognuno può dire qualunque cosa, anche senza una reale preparazione sui fatti e senza un vero contraddittorio.
Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare in televisione con dei grandi professionisti, dotati di assoluta correttezza e ortodossia nel raccontare i fatti. Io vengo da quel tipo di formazione. Questo è lo spirito che mi muove.
I programmi TV, ma anche i libri e i podcast crime sono molto seguiti. Perché la cronaca nera affascina così tanto il pubblico?
La cronaca nera, se è fatta bene, diventa una cartina di tornasole per capire chi siamo e che cosa facciamo.
I fatti che vengono raccontati sono l’epifenomeno di qualcosa che è nell’aria.
C’è un caso recente che l’ha colpita particolarmente?
Il caso di Alessia Pifferi. Pensare a questa bambina lasciata da sola che presa dai morsi di fame cerca di mangiare anche il pannolino che ha vicino a sé, mentre la madre fa la sua vita, senza preoccuparsi della piccola, mi ha sconvolto profondamente.
Lavorando così tanto a contatto con il lato oscuro dell’essere umano non c’è rischio di aver bisogno di prendere delle distanze?
La mia biografia racconta quanto io sia stato a contatto con il dolore in tutte le sue forme. Nonostante questo o forse proprio per questo, quando vedo persone che soffrono continuo a cercare di dar loro un aiuto.
Sono credente, sono cristiano, se una persona ha bisogno di una mano è giusto dargliela, non bisogna scappare.
Siamo tutti capaci di condividere il piacere, il divertimento, ma è importante stare vicino a chi ha bisogno di aiuto nel momento di sofferenza.
Del resto, la vita è un dramma, l’epilogo è la morte, non è un carosello, il finale non è vissero tutti felici e contenti. Non possiamo prendere le distanze dal dolore.
Fa parte anche del mio profondo senso del dovere. Se c’è una sfida da affrontare, qualcosa per cui combattere lo faccio e, anzi, spesso vorrei fare anche più di quello che riesco a fare.
Ferdinando Carretta a lei confessò lo sterminio della sua famiglia. Come ripensa a quell’incontro a distanza di anni?
Questa vicenda racconta molto del mio modo di lavorare. C’è tutto un pregresso a quello che è accaduto.
Nel 1996 ero andato in Venezuela perché c’era stato chi aveva detto di aver visto la famiglia Carretta là. Ai tempi si ipotizzava fossero scappati con dei soldi sottratti alla banca dove Giuseppe Carretta lavorava.
In realtà quella si rivela una pista sbagliata e ne sono certo dopo aver parlato con importanti esponenti della comunità italiana in Venezuela. Quindi torno in redazione con niente in mano e la sensazione di aver fatto un buco nell’acqua.
Nel 1998 Ferdinando Carretta viene individuato a Londra. La stampa italiana era già là quando vengo avvisato e decido di partire. Non avevo particolari aspettative, anche per via dell’esperienza in Venezuela.
Invece quando incontro Carretta, succede quel che nessuno poteva immaginare. Siamo uno di fronte all’altro. Davanti a me, c’è un ragazzo della mia stessa età, una persona che si vedeva lontano un miglio che era spaccata in due.
Non voleva rilasciare interviste, allora mi viene in mente di chiedergli se volesse fare un appello alla sua famiglia, dal momento che aveva detto che non vedeva i suoi genitori da dieci anni e che c’era stato un litigio. Spiegandogli che potevo fare in modo che venisse trasmesso nel programma spagnolo simile a Chi l’ha visto? che va in onda in quelle zone.
La sua risposta è stata: “E se non potessero sentirle?”. A quelle parole ho capito quel che stava per accadere.
Carretta inizia a parlare, l’operatore che era con me fa per accendere la telecamera, l’ho bloccato perché avevo compreso perfettamente la delicatezza del momento e l’importanza del fatto.
Non ho registrato un centimetro di nastro. Quel che mi premeva era sopravvivere a Carretta, avevo il timore che lui si suicidasse.
Il delitto che aveva commesso era talmente grave e ammetterlo dopo averlo tenuto nascosto per tutti quegli anni è stato come vedere crollare una diga, tutto era possibile.
Come prima cosa ho convinto Carretta a tornare in Italia. E nei miei contatti con magistrati e polizia mi sono limitato a dire che voleva chiarire la sua posizione, senza mai dire a nessuno della confessione.
Una volta convinto, la sera prima del rimpatrio, gli ho chiesto di poter registrare l’intervista e lui acconsenti.
Nell’intervista c’è la confessione, ma metterlo in sicurezza per me veniva prima dello scoop. Questo, secondo me, è il modo corretto di lavorare.
Gli regalai un telefonino e ogni sei mesi circa ci sentivamo. Più volte mi hanno chiesto far da tramite per un’intervista ma lui era contrario e non ho insistito. Anche perché questa prassi, ormai diffusa fra i media, di tormentare le persone legate ai casi di cronaca la trovo scorretta.
A proposito, cosa pensa del pagamento delle persone legate ai casi di cronaca per rilasciare interviste?
Tenuto conto di quel che guadagnano i programmi con il pianto, il dolore e le urla di queste persone credo ci debba essere meno ipocrisia sulla questione dei soldi.
Ecco, io non sopporto l’ipocrisia, quando sento odore di finzione ne sono nauseato.
E invece come fu l’incontro con Salvatore Parolisi?
Quando ho incontrato Parolisi, il cadavere della moglie era stato trovato, ma lui non era ancora fra i sospettati. Nell’intervista abbiamo ripercorso le tappe dell’ultima giornata di Melania Rea.
Mi sono trovato di fronte a un sacco vuoto, il nulla, ma dico la verità, non avevo capito che lui poteva essere l’assassino.
Poi ci sono tornato più volte, e ho capito che era il niente e che il nulla è l’humus, l’elemento che nutre il crimine.
Cosa intende esattamente con “il nulla”?
L’assenza di coscienza. Se hai un minimo di coscienza certe cose non le commetti.
In questi mesi sono andati in onda sul Nove i nuovi episodi del programma “Faking it”, giunto alla sua seconda stagione. Il format prevede che si vadano ad analizzare, attraverso la comunicazione verbale e non verbale, le incongruenze nei comportamenti e nelle dichiarazioni di persone coinvolte nei casi di cronaca raccontati. Quanto è complicato smascherare una bugia?
Posso dire, facendo riferimento al mio grado di conoscenza, riguardo la scienza delle comunicazioni, la psicologia, la PNL che è abbastanza semplice trovare dei segnali che fanno capire che c’è dell’altro rispetto a quanto viene raccontato.
Alcune persone, poi, riescono istintivamente a percepire la verità dietro le parole.
Sta per uscire il libro “Il mostro è libero (se non è morto)” con la ricostruzione delle indagini sul Mostro di Firenze. L’arresto di Pacciani è stato dunque un errore giudiziario?
Sul Mostro di Firenze ho letto tutti gli atti e la documentazione sul caso. Sono tante le cose che non tornano. Sono rimasto senza parole nel capire come si è arrivati alla condanna dei compagni di merende, che tutto potevano essere meno che il mostro a tre teste.
Il libro ripercorre quella che, secondo me, è stata l’unica indagine, seria e completa, fatta sulla ricerca delle identità del mostro.
L’ho scritto a quattro mani proprio con l’autore di quell’indagine, Nunziato Torrisi, Colonnello Comandante del Reparto Operativo dei Carabinieri durante i delitti del mostro di Firenze dal 1983 al 1986.
Questo libro racconta l’investigazione che fece Torrisi e tutto fa pensare che il mostro potrebbe veramente essere il soggetto da lui individuato allora.
E perché non è stato arrestato?
Se non sono arrivati a scoprire il mostro è per via di due fattori: il primo è politico e relativo alla rivalità fra la procura di Firenze e l’ufficio del giudice istruttore, in atto quando fu rinvenuta nel 1982 la pistola presumibilmente usata dal mostro nel 1968.
Il secondo fattore è la sparizione dell’unica prova che avrebbe potuto incastrare e determinare senza ombra di dubbio l’identità e colpevolezza dell’assassino.
Uno straccio sporco di sangue e di polvere da sparo che guarda caso è scomparso dall’Ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, proprio quando le moderne tecniche di analisi avrebbero potuto identificare il colpevole e far crollare l’inchiesta che portato alla condanna dei compagni di merende.