Un documentario e una fiction su Netflix. E non sono i primi, su Jeffrey Dahmer. Il serial killer americano continua ad affascinare l’opinione pubblica. Ma cos’ha di tanto speciale?
Il cannibalismo
Ogni film, documentario, serie, sta esplorando da anni lati diversi della sua storia. E tutti hanno un interesse sia criminologico che narrativo. Vediamoli. Innanzitutto, il cannibalismo. Un evento raro nelle cronache criminali, che pochi sono arrivati a compiere. Penso a Issei Sagawa a Parigi negli anni Ottanta, a Armin Meiwes nella Germania di venti anni fa, ad Albert Fish nell’America degli anni Trenta. Un evento che sembra appartenere a un passato di tribù e stregoni e che quando accade nel mondo civilizzato inevitabilmente ci disturba e ci colpisce. È fuori dalle regole, è fuori dal tempo, è fuori dalla morale, è fuori dall’umanità. La prima differenza che balza agli occhi tra loro e Dahmer è quantitativa: ognuno ha mangiato una, al massimo due persone. Jeffrey Dahmer è un serial killer che ha ucciso 17 volte e che potrebbe aver mangiato 12 delle sue vittime, invece. Quindi, le proporzioni di un atto già sconcertante di suo. Proporzioni che rendono quell’atto ancora più mostruoso, come se il suo autore non fosse nemmeno umano.
La morbosità
Poi c’è tutto l’alone di morbosità delle sue pratiche sessuali, l’immagine dei cadaveri nella cantina di casa della povera nonna, gli atti di necrofilia su di loro, il depezzamento per potersi sbarazzare dei corpi. E lo sfondo del mondo gay di Milwaukee, a dare quell’alone di perversione, amoralità. Il suo rapporto coi cadaveri, che facevano un’allucinata compagnia alla sua solitudine, come fu per Dennis Nilsen nella Londra degli anni Settanta-Ottanta.
Una storia spettacolare
Una storia, per funzionare, ha bisogno di colpi di scena. Ed ecco l’incapacità della polizia, che suona alla porta di Dahmer per riconsegnargli uno dei ragazzi che stava per uccidere e che era riuscito a scappare. E che naturalmente lui uccise subito dopo che la polizia andò via, pensando a una lite tra due gay che avevano decisamente bevuto troppo. E poi c’è il fatto che è successo negli Stati Uniti, il che vuol dire che di questa storia sappiamo tutto: se fosse successa in Russia, anche quella di oggi, ne sapremmo forse il 5% e quindi non potrebbe crearsi nessuna mitologia popolare, nessuna fascinazione pubblica. Tutto questo rende “spettacolare” il percorso criminale di Dahmer.
E ricordiamoci che viviamo in un’epoca in cui tutto è spettacolare, tutto deve esserlo. La vita di questo serial killer lo è più di altri suoi “colleghi”.
Ma spettacolare equivale spesso a superficiale e ci facciamo colpire dal fascino di ciò che ha fatto, senza pensare che ha lasciato 17 famiglie senza un figlio, al punto che fu Dahmer stesso a dichiarare, in una lettera al suo giudice: «Ora è finita. Qui non si è mai trattato di cercare di essere liberato. Non ho voluto mai la libertà. Sinceramente, volevo la pena capitale per me stesso. Qui si è trattato di dire al mondo che ho fatto quello che ho fatto, ma non per ragioni di odio. Non ho odiato nessuno. Sapevo di essere malato, o malvagio o entrambe le cose. Ora credo di essere stato malato. I dottori mi hanno parlato della mia malattia, e ora mi sento in pace. So quanto male ho causato… Grazie a Dio non potrò più fare del male. Credo che solo il Signore Gesù Cristo possa salvarmi dai miei peccati… Non chiedo attenuanti.»
E non perché volesse essere catturato, anzi. Ma perché proprio la vergogna dell’arresto lo aveva messo a confronto realmente con sé stesso.
Un barile blu
Ma la parte spettacolare della storia, pazzescamente cinematografica ben prima che ci facessero un film, cominciò la notte del 23 luglio 1991 quando le telecamere delle tv locali inquadrarono gli agenti della polizia di Milwaukee portare giù dalle scale dell’edificio sulla Venticinquesima Nord un grosso barile di plastica blu, pieno di resti umani. Il cattivo odore che impestava tutto non rendeva necessarie ulteriori dichiarazioni della polizia. Era una scena mai vista. Senza parlare degli organi umani ritrovati in cucina e nel frigorifero, o fotografati alle pareti. Era l’inizio di una storia horror scritta a caratteri cubitali, di un colossale esorcismo collettivo della violenza e della perversione, di una lunga concentrazione di tutto il Male in un’unica terribile e rivoltante persona. Meccanismi sociali che funzionano sempre e dappertutto. Jeffrey Dahmer era e resterà sempre uno dei serial killer più interessanti della storia. E non solo per la criminologia.
Foto di Kayle Kaupanger su Unsplash