La Cassazione ha condannato un 57enne salernitano per aver istallato uno spy-software nel cellulare della moglie anche se quest’ultima ne era a conoscenza
È vietato spiare il cellulare di un’altra persona, anche se quest’ultima ne è a conoscenza. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15071/19, rigettando il ricorso di un 57enne salernitano che spiava le conversazioni telefoniche della moglie. L’uomo infatti aveva fatto istallare nel cellulare della donna un software spia in grado di intercettare le sue comunicazioni telefoniche. Per questo motivo era stato precedentemente condannato per il delitto di cui all’art.617-bis del cod. pen. dal Tribunale di Busto Arsizio il 3 aprile 2017, sentenza confermata anche dalla Corte di Appello di Milano dove l’uomo aveva presentato ricorso.
A questo punto, l’imputato aveva deciso di rivolgersi alla Corte Suprema impugnando la tesi che il programma informatico, istallato nel cellulare della moglie, non sarebbe rientrato nella categoria degli “apparati o strumenti” presi in considerazione dal suddetto articolo. In secondo luogo, l’uomo ha lamentato il fatto che la donna era stata informata dal figlio dell’istallazione del software spia. Pertanto, egli recriminava di non aver arrecato “alcuna lesione alla libertà di comunicazione” della moglie, in quanto quest’ultima ne era a conoscenza.
I giudici, visionato il caso, hanno però rigettato il ricorso dell’uomo.
Innanzitutto, il software in questione rientra di buon grado nella categoria dei dispositivi previsti dall’art. 617-bis, ovvero di quegli strumenti che “per effetto delle innovazioni tecnologiche consentono di realizzare gli scopi vietati dalla legge”. In secondo luogo, gli ermellini hanno ritenuto che il comportamento dell’uomo ha leso la privacy della moglie, in quanto è da considerarsi reato anche “la sola attività di istallazione” dello spy-software. Ciò significa che il reato è da considerarsi consumato “anche se gli apparecchi istallati non avessero funzionato o non fossero stati attivati”. Di conseguenza cade la tesi dell’irrilevanza dell’intrusione nella privacy altrui e del tacito consenso della moglie, che era a conoscenza della “cimice” nel cellulare. Infatti, l’intercettazione della comunicazione telefonica rappresenta solamente “un post-factum rispetto al momento di consumazione del reato, coincidente con l’istallazione del software”.
L’uomo è stato quindi condannato al pagamento di 2.500 euro alla donna e al pagamento delle spese processuali.