La Cassazione ha dichiarato reato entrare nel profilo Facebook del proprio partner anche se le credenziali d’accesso sono state fornite spontaneamente da quest’ultimo
È reato accedere al profilo Facebook del proprio partner anche se la password è stata fornita spontaneamente da quest’ultimo. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 2905/19, dichiarando “inammissibile” il comportamento di un uomo che ha usato le credenziali Facebook della moglie per accedere di nascosto al suo account. Secondo la Corte Suprema, anche nel caso in cui la password sia stata offerta spontaneamente dal partner, senza un’esplicita autorizzazione è vietato controllare le conversazioni che quest’ultimo intrattiene con altre persone. Tale comportamento infatti ricade nel reato di accesso abusivo a sistema informatico e nella violazione della privacy altrui.
La sentenza in questione riguarda un uomo siciliano che all’epoca dei fatti era entrato di nascosto nel profilo Facebook dell’attuale ex moglie, grazie alla password fornitagli da quest’ultima prima che la loro relazione si incrinasse. Una volta ottenuto l’accesso, l’ex marito aveva potuto fotografare una chat intrattenuta dalla coniuge con un altro uomo, per poi cambiare la password in modo da impedirle di accedere nuovamente al social network. Le foto delle conversazioni clandestine, che lui stesso aveva deciso di presentare come prova nel giudizio di separazione, gli sono però tornate contro.
L’uomo infatti era stato condannato dal tribunale di Palermo e successivamente dalla Corte d’Appello per il reato di accesso abusivo a sistema informatico. Altresì, aveva deciso così di presentare ricorso alla Corte di Cassazione, impugnando la tesi che “chiunque avrebbe potuto accedere al profilo della moglie, presidiato da codici di accesso piuttosto comuni” e che le credenziali gli erano state comunicate dalla stessa “prima del lacerarsi della loro relazione”. Tuttavia, le argomentazione dell’ex marito sono state rigettate dalla Corte Suprema, che ha sottolineato come “attraverso tale comportamento si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate e finanche l’estromissione dall’account Facebook della titolare del profilo e l’impossibilità di accedervi”. I giudici hanno perciò dichiarato “inammissibile” il ricorso dell’imputato e lo hanno condannato a pagare 2.000 euro alla Cassa delle ammende e circa 3.000 euro per la difesa dell’ex moglie costituitasi parte civile.