Abbiamo chiesto a Marco Monzani, giurista, criminologo e docente universitario, di spiegarci meglio alcuni aspetti di questa interessantissima disciplina.
La vittimologia è da decenni una branca della criminologia, ma l’attenzione alla vittima è invece un fatto recente nel nostro Paese, come mai?
La vittima di reato è indicata tra gli “oggetti” di studio della criminologia soltanto da pochi decenni. Prima di allora tutti i manuali indicavano, come oggetti di studio della Criminologia, il fatto-reato, l’autore del reato e la reazione sociale al reato. La vittima era considerata un soggetto passivo, che si limitava a subire il reato e che non aveva alcun ruolo nella criminogenesi e nella criminodinamica.
Le ragioni di questa mancata attenzione per la vittima sono diverse.
Innanzitutto la criminologia italiana risente degli influssi della Scuola Positiva di Cesare Lombroso, la quale riteneva che le cause del crimine fossero endogene, vale a dire interne alla figura dell’autore del reato e potessero individuarsi in fattori di carattere atavico, ereditario e biologico (da qui la famosa teoria del “delinquente nato”), per cui la vittima non rivestiva alcun interesse per quanto riguardava lo studio dell’eziologia del crimine.
In secondo luogo, il nostro sistema penale è un sistema penale “reo-centrico”, vale a dire centrato esclusivamente sulla figura del reo, con l’obiettivo di accertarne la responsabilità e applicare la relativa sanzione prevista dal codice penale. Tutto questo ha fatto sì che la figura della vittima fosse assolutamente dimenticata, e in fase processuale riconosciuta solo quando anche testimone del fatto. La costituzione di parte civile della persona offesa nel processo penale rappresenta soltanto un simulacro di giustizia, avendo, tale parte processuale, un ruolo assolutamente marginale e confinato alla richiesta di un mero risarcimento economico rispetto al danno subito, quando invece sappiamo perfettamente che le conseguenze della vittimizzazione vanno ben al di là di una mera questione economica.
Tutto questo ha fatto sì che la vittima venisse riconosciuta soltanto recentemente dalle scienze criminologiche, in particolare nel nostro Paese.
Parliamo del ruolo della vittima nel reato. Quando una persona si può mettere, col proprio comportamento, nella condizione di diventare vittima?
Vi possono essere diverse situazioni che fanno sì che la vittima possa mettersi nelle condizioni di subire un reato, ma molto raramente si può attribuire ad essa anche solo parte della responsabilità di quanto subito. In vittimologia si parla di “predisposizioni vittimogene” per indicare quelle situazioni, e quelle condizioni, in presenza delle quali è statisticamente più probabile che un soggetto possa restare vittima di un reato. Ad esempio, l’appartenenza al genere femminile rappresenta una predisposizione vittimogena per la violenza sessuale; la professione svolta, ad esempio, l’appartenenza alle forze dell’ordine, rappresenta una predisposizione vittimogena per alcune forme di reato violento; appartenere a una minoranza etnica rappresenta una predisposizione vittimogena per quanto riguarda reati a sfondo razziale. Conoscere le predisposizioni vittimogene aiuta a prevenire situazioni di vittimizzazione.
In altri casi sono le vittime stesse a mettersi nelle condizioni di subire reati; si pensi, ad esempio, alle vittime provocatrici (con la previsione di una circostanza attenuante in fase di quantificazione della pena per il reo), o quelle che restano vittima a seguito di un reato da loro stesse compiuto, ma si tratta di situazioni marginali. Nella maggior parte delle situazioni, tuttavia, pur la vittima rivestendo un ruolo determinante nella criminogenesi e nella criminodinamica, ad essa non può essere attribuita alcuna responsabilità per quanto subito, restando la piena responsabilità in capo all’autore del reato.
Le istituzioni sono spesso una causa di vittimizzazione esse stesse. Cosa si sta facendo nel nostro Paese per rimuovere questo problema?
Le vittimizzazioni istituzionali possono essere di diversa natura ma io focalizzerei l’attenzione sulle vittimizzazione da errori giudiziari, che potrebbero riguardare presunti autori di reato condannati nonostante la loro innocenza, o vittime reali di reato che non vengono riconosciute in sede processuale. In questi casi il solo modo per rimuovere il problema è quello di rendere efficiente il nostro sistema penale, il quale brilla di garantismo (e guai se così non fosse) tuttavia pecca di efficienza; e tale mancanza può tradursi, purtroppo, in errore giudiziario.
Esiste infine la questione dei falsi abusi, cioè di vittime (spesso bambini ma non solo) presentate o che si presentano come tali, ma che non lo sono. Cosa li spinge a mostrarsi/essere mostrati come tali?
La tematica dei falsi abusi, o meglio dei cc.dd. falsi positivi in caso di presunto abuso, è una tematica di grande interesse e riconosciuta dalla quasi totalità della comunità scientifica. Il fenomeno risulta particolarmente diffuso in situazioni particolari, quali separazioni conflittuali tra coniugi; alcune ricerche ci dicono che oltre il 70% delle denunce di abuso su minori in queste situazioni risulta falsa e strumentale all’ottenimento di determinati vantaggi (es. l’affidamento esclusivo dei figli).
Altra questione è rappresentata dalla presenza di vittime cc.dd. simulatrici o immaginarie, che riferiscono, più o meno consapevolmente, di un reato subito, reato tuttavia che non si è mai verificato.
Grande attenzione, dunque, è richiesta nella valutazione di determinate denunce in presenza di determinate situazioni e condizioni.