Le condizioni di vita nei penitenziari sono sempre più problematiche. Suicidi e violenze sono all’ordine de giorno. Il sovraffollamento rende la vita in carcere ancora più critica. Che fare?
Sono ormai 60 i suicidi nelle carceri italiane da inizio anno. Strutture fatiscenti, violenze, condizioni igieniche precarie rendono la detenzione invivibile ed ecco che i carcerati arrivano a compiere gesti estremi.
E poi c’è il grande tema del sovraffollamento. Secondo un rapporto di Antigone, al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. Nel dettaglio, il livello di sovraffollamento nazionale ha raggiunto il 130% e in 56 carceri italiane è superiore al 150% con picchi di oltre 200%.
Se per i detenuti la situazione è drammatica, non stanno meglio gli agenti della polizia penitenziaria. Si stima che alla polizia penitenziaria manchino rispetto al reale fabbisogno oltre 18 mila unità. Questa situazione porta a controlli inadeguati, a turni massacranti, a una gestione dei carcerati sempre più difficile. Un lavoro logorante che non fa altro che incidere sulla salute psicofisica del personale penitenziario. Anche qui le morti non mancano: sono infatti 6 le guardie che si sono tolte la vita finora nel 2024.
Che sta succedendo? Come è possibile che un luogo che dovrebbe riabilitare finisca per diventare un girone infernale da cui uscire a tutti i costi, anche morendo?
Ne abbiamo parlato con Valentina Calderone, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale e co-autrice del libro “Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini” (Chiarelettere).
Nel volume si spiega come in tutti i Paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo i carcerati: solo il 24% dei condannati va in carcere in Francia e in Inghilterra. In Italia questa percentuale sale alI’82% perché nel nostro Paese chi ruba in un supermercato si in carcere accanto a chi ha commesso un delitto.
Il titolo “Abolire il carcere” sembra quasi una provocazione. È realmente fattibile?
No, non è una provocazione. Tendiamo a dare per scontato che istituzioni che esistono da tempo, siamo sempre esistite e esisteranno per sempre. Ovviamente non è così, nel senso che il carcere non è sempre esistito.
Il nostro Paese è uno dei più grandi esempi di abolizionismo nel mondo. Siamo infatti gli unici ad aver abolito i manicomi e anche quella era un’istituzione che veniva percepita come intoccabile, non modificabile.
Quando parlo di abolire il carcere, mi riferisco al tendere all’abolizionismo nel lungo periodo. Ci sono molte cose che possono essere fatte nel frattempo. Per come la vedo io è un atto di rispetto verso un principio di realtà: ci dobbiamo occupare delle persone che stanno oggi in carcere, sono affidate a noi e dobbiamo fare i conti con il fatto che le condizioni di vita là dentro sono devastanti.
Dobbiamo provare tutti gli strumenti possibili per farne sempre più a meno. Questo vuole dire essere abolizionisti. E si inizia pensando a come svuotare le carceri a come evitare di rivolgerci sempre a questo strumento, sperimentando delle alternative.
Quali potrebbero essere le alternative al carcere?
Ci sono già degli strumenti alternativi normati. Pensiamo per esempio alle persone con dipendenze per cui la legge prevede l’inserimento in una comunità terapeutica per la salute mentale.
Questo ragionamento è ancora più importante nel momento in cui ci rendiamo conto di qual è effettivamente la composizione della popolazione detenuta.
Circa il 33% della popolazione in carcere è composto da stranieri, il cui ingresso all’interno del circuito del penale deriva da politiche migratorie che non consentono loro di avere una vita regolare. L’odissea per ottenere il permesso di soggiorno li condanna alla marginalità, all’invisibilità, al vivere per strada che può portare a situazioni di rilevanza penale.
Molte persone sono recluse per reati minori, come il piccolo spaccio di stupefacenti. Recentemente ho incontrato un ragazzino all’interno del minorile di Roma Casal del Marmo in carcere perché è stato trovato con mezzo grammo di hashish. Ha senso la sua reclusione?
Ecco, in un’ottica di abolizionismo, dobbiamo procedere con la riduzione dell’impianto dei reati all’interno del nostro Paese. Del resto, reato è quel che decidiamo che lo sia, il codice penale non è scritto sulla pietra, può essere modifico.
Per questo, fermo restando che le strutture sono sicuramente importanti, l’accesso alle misure alternative lo sono altrettanto per categorie di persone condannate per reati minori, non pericolosi socialmente. Spesso poi, nel caso di stranieri e minori, le condanne sono legate a situazioni di marginalità su cui si potrebbe intervenire con presidi territoriali e assistenza, al fine di prevenire che si arrivi a compiere atti di rilevanza penale.
Il sovraffollamento è oggi un aspetto particolarmente critico che complica una situazione già problematica. In quali condizioni si trovano a vivere i detenuti in Italia?
Le condizioni nelle carceri sono terribili, soprattutto nei mesi estivi. Ovviamente ci sono istituti in cui le condizioni sono migliori e altri peggiori, ma in linea generale la situazione è molto complessa.
L’estate è uno dei momenti più critici per quanto riguarda gli atti autolesivi e i suicidi, proprio perché la mancanza di contatto col mondo esterno e il sovraffollamento accentua la sofferenza.
Si pensi che a Regina Coeli c’è un sovraffollamento di circa il 180%, le celle vengono chiuse tra le 18 e le 18:30 e riaperte il giorno dopo alle 08:30-9. I detenuti passano una quantità considerevole di ore all’interno della stanza, con finestre sbarrate che schermano la luce e sono di ferro per cui diventano roventi sotto al sole.
Caldo, muffa, insetti, spesso poi non funzionano gli scarichi, i rubinetti perdono acqua, non è possibile fare attività fisica. A volte non è possibile mettere un ventilatore all’interno della stanza perché l’impianto elettrico non regge.
Tutte cose che rendono veramente intollerabile la permanenza in cella. A maggior ragione se in una stanza pensata per due sono rinchiuse cinque persone.
Il 2022 è stato un anno da record sul fronte dei suicidi in carcere con 85 suicidi accertati, ma anche nel 2023 e nel 2024 i numeri continuano a essere importanti. Da cosa è causata questa emergenza e cosa si potrebbe fare per arginarla?
Stiamo veramente assistendo a una strage. Spesso i suicidi capitano in periodi specifici: appena entrati e, paradossalmente, poco prima della fine della pena, per la paura di uscire e tornare in una realtà degradata.
E questo è un fallimento dell’istituzione carcere. Abbiamo sottratto alla vita libera una persona per farle fare un percorso riabilitativo, se si suicida a due mesi dal fine pena dobbiamo avere il coraggio che l’intero sistema ha fallito.
Cosa si può fare per arginare il problema dei suicidi? Intanto sicuramente rendere condizioni dignitose di vita all’interno degli istituti. Cosa complicata da fare senza abbassare i numeri all’interno delle carceri.
Abbiamo migliaia di persone con tre anni al fine pena, si potrebbe iniziare con il concedere sconti di pena e amnistie che oggi vengono sempre meno usati ma sono provvedimenti previsti all’interno della nostra Costituzione.
Liberarli non rappresenta la resa dello Stato. La vera sconfitta dello Stato è assistere a queste morti senza fare nulla perché quelle persone sono state affidate al sistema carcerario che dovrebbe farsene carico e prendersene cura, invece sono trattate in modo disumano.
E qui si arriva a un altro grosso tema che è la violenza nelle carceri perché spesso chi dovrebbe garantire l’ordine diventa l’aguzzino dei detenuti. Com’è possibile che ciò avvenga? Mancano controlli? Manca formazione? Non c’è un adeguato supporto per chi svolge questo lavoro?
I fattori siano tanti e proprio per questo il carcere, secondo me, è scarsamente riformabile.
Si tratta di un luogo di violenza endemica. Si parla sempre e anche giustamente della massima manifestazione della violenza che quella fisica, soprattutto dopo che abbiamo introdotto il reato di tortura nel nostro codice penale, ma esiste una forma di violenza derivante dal potere di uomini che possono disporre della vita di altri uomini che stanno dietro a delle sbarre, che è altrettanto pesante. Ogni richiesta deve passare da un’autorizzazione, creando così il contesto affinché si verifichino rapporti di forza e angherie.
In più c’è un tema di sottodimensionamento del personale del carcere che pesa sulla salute di chi fa questo mestiere e infatti ci sono suicidi anche fra le guardie carcerarie.
Gli agenti sono in numero irrisorio rispetto al numero dei detenuti che sono chiamati a vigilare, tanto che ci sono poliziotti che fanno turni da 24 ore. C’è chi fraintende il ruolo, chi non ha gli strumenti per farlo al meglio. Sicuramente non aiuta il decreto Carceri che accorcia ulteriore la formazione degli agenti.
Tutte queste problematiche si sommano e che fanno sì che accadano episodi di violenza.
In queste condizioni in che modo è possibile pensare di garantire il funzionamento del sistema carcerario?
Si stima che il 68,7 % dei detenuti torni a delinquere. Un livello di recidive così alto è un’ulteriore prova del fatto che le carceri non funzionano?
Sì e aggiungo che il sistema carcerario ci costa circa 3 miliardi l’anno, se la percentuale di successo è solo del 30% allora dobbiamo dirci che è un sistema fallimentare.
Dobbiamo prendere atto che le persone vanno trattate in maniera diversa. Anche se volessimo fare un ragionamento puramente economico, dovremmo comunque deciderci ad avere un altro approccio perché questo non funziona.