L’inciviltà è più visibile di altri tipi di reati: la rapina si consuma in pochi minuti, il vetro rotto o la spazzatura indugiano sotto gli occhi di tutti per molto più tempo. Tali comportamenti riducono la cooperazione e l’interazione tra i residenti di un luogo fino a spingerli a violare le norme socialmente condivise in quanto realizzano che comportamenti incivili non vengono puniti e non sono rilevanti.
La teoria della broken windows è una teoria criminologica elaborata nel 1982 da James Q. Wilson e George Kelling. Secondo tale teorizzazione non punire piccole trasgressioni può generare fenomeni di emulazione che portano a spirali di violenza più gravi. L’idea nasce dall’esempio della finestra rotta: i due studiosi sostengono che se qualcuno rompe una finestra di un edificio e questa non viene riparata, in chi la vede si diffonde l’idea che l’edificio sia abbandonato o lasciato senza cura, attraendo presto altri teppisti nel rompere le altre finestre generando altri fenomeni di violenza contro la proprietà. Questa formulazione, applicabile anche ad altri fenomeni di criminalità urbana è stata adottata da diverse municipalità americane come modalità di gestione del territorio e prevenzione del crimine contro le proprietà.
La teoria della finestra rotta è stata applicata per la prima volta negli anni ottanta nella metropolitana di New York City, il punto più pericoloso della città. Si cominciò combattendo le piccole trasgressioni: graffiti, lo sporco, le sbornie e l’evasione del pagamento del biglietto. Correggendo piccole trasgressioni si è riusciti a fare della Metro un luogo sicuro, tanto che nel 1994 Rudolph Giuliani sindaco di New York, basandosi sulla teoria delle finestre rotte e l’esperienza della metropolitana, ha promosso una politica di tolleranza zero: creare comunità pulite e ordinate, non permettendo violazioni alle leggi e agli standard della convivenza sociale e civile.
Negli ultimi anni l’insicurezza oggettiva è diminuita, mentre la percezione soggettiva sembra aumentare. A tal proposito, alcuni autori ritengono che la paura sia una costruzione psicologica che deriva dal contesto sociale nel quale le persone vivono ma che non è direttamente correlata al reale tasso di criminalità.
La diffusione dell’insicurezza può essere spiegata facendo riferimento alla teoria del panico morale secondo la quale le reazioni dei media e dell’opinione pubblica risultano eccessive rispetto alle devianze, a volte non gravi, dei giovani adolescenti. Secondo questa teoria il panico morale si verifica quando vi è un aumento della preoccupazione per le azioni di alcuni gruppi di persone e per le conseguenze negative che queste azioni hanno sul contesto sociale.
Secondo la letteratura criminologica i media sono in grado di accrescere il clamore sociale rispetto al tasso di criminalità in quanto danno ai cittadini un’immagine non corretta del fenomeno delinquenziale sia in termini quantitativi che qualitativi.
L’influenza dei media sulla collettività è maggiore quando essi diffondono notizie che non sono immediatamente verificabili perchè le persone, che hanno fiducia nei media, sono portate a credere a ciò che viene riportato. In America si è assistito al cosiddetto “effetto CSI”, che ha prodotto nei cittadini un forte senso di sfiducia nelle forze dell’ordine, paragonate a quelle viste in tv molto più operative ed efficaci.
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